I NOVISSIMI – LA MORTE

INTRODUZIONE

La realtá é raccapricciante!
a) Morti televisive: spesso la TV ogni giorno ci passa il nostro pane quotidiano di morti ammazzati.
* Morti delle vendette di tutti i gruppi mafiosi nel mondo
* Morti da overdose
* Morti da discoteca, il sabato notte, con le pazze gimcane di macchine impazzite
* Morti delle guerre piú assurde
* Morti in seguito ad attentati
* Morti da incidenti stradali
* Stragi di ex-mogli (ex-mariti) o di ex fidanzate (ex-fidanzati) o di ex
b) E poi morti non televisive, quelle consumate in cliniche ed ospedali:
* Milioni di aborti
* Malati terminali eliminati con una iniziezione
* Eutanasia
* Suicidi assistiti
* Stragi di anziani in vari ospedali (“tanto sono ormai tutti lí con un piede nella fossa”)
* Stragi di bambini malformati (in certi reparti di maternitá, quando nascono bambini malformati, li si lascia morire o amministrando loro una dose abbondante di morfina  o con la scusa che manca l’incubatrice).
Alcuni giornalisti, in una intervista ad Alberto Moravia, ateo e scrittore, fecero questa domanda: “Professore, è vero o no che dopo la morte non c’è nulla?”. Sapete cosa rispose il Professore?  “Verissimo, state tranquilli, scrivete pure che non c’è nulla, ditelo pure alla gente. Non c’è nulla, ve lo assicuro io, vi dó la mia parola”.  Non vi pare che sia una presa in giro? E la prova che non c’è nulla?
La sua parola! Un po’ poco, come prova! O no? Oggi non si vuole parlare della morte, la si vuole ignorare, la si vuole nascondere (in Germania, per esempio, vedete funerali per le strade, come ancora in certi paesi d’Italia? E la stessa cosa in tutti i Paesi del Nord dell’Europa). Eppure affrontare il problema della morte e di cosa c’è dopo la morte, porta alla maturitá dell’uomo e della societá, perché porta ad affrontare il piú grande problema dell’uomo: perché si vive? Ha detto un altro grande scrittore, francese: Andrea Malraux: “Il pensiero della morte è il pensiero che rende maturo un uomo. Bisognerebbe festeggiare il giorno in cui, per la prima volta, si è riflettuto sulla morte, perché è il giorno che segna il passaggio di una persona verso la sua maturitá”.

Interviste sulla morte

È stato chiesto ad un gruppo di giovani che cosa ne pensano della morte.
Ecco alcune risposte:

  1. (23 anni)
    Qualche anno fa ho avuto un grosso problema di esaurimento nervoso. La mia vita era diventata cosí complicata che pensavo continuamente al suicidio, pensavo cioè che solo la morte potesse risolvere il mio problema.
    In quel tempo vedevo la morte non come ultimo atto della vita, ma come un’ancora di salvezza. Poi mi sono reso conto che in tal modo io sfuggivo al problema, cioè fuggivo dalla realtá e non la affrontavo. Ora che ho superato tutto e sono tornato una persona sana e normale, vedo la morte con serenitá, come il destino di ogni essere vivente. Non ho paura della morte: quando arriva sono pronto ad accoglierla. Ma nello stesso tempo vivo pienamente, con entusiasmo la mia vita, pur sapendo che in ogni momento puó accadere qualcosa di tragico.
  2. (21 anni)
    La morte, anche quella dei miei cari, l’ho sempre vissuta come un momento di malinconia e di tristezza; ma non mi ha mai shoccato piú di tanto, forse perché non mi sono mai fermato a ragionarci su e a mettere a fuoco il problema. A me personalmente la morte non fa paura; mi fa paura, invece, morire stupidamente, per errore, per un incidente stradale. La morte è una cosa seria, invece, molti miei coetanei, da cretini, si mettono a sfidare la morte. Sono giovani infantili, deboli, incompleti, insoddisfatti, repressi, frustrati e per sentirsi importanti, contenti che gli altri li vedano, li apprezzino e li ritengano coraggiosi, mettono in gioco la loro vita, schiacciando il piede sull’acceleratore e facendo bravate tipo “roulette russe” o addirittura vanno incontro alla morte in modo spavaldo, scegliendola essi stessi, per esempio attraverso il gioco della “Balena Blu”, cioé il gioco dell’orrore che spinge al suicidio gli adolescenti.
    (Cos’è il gioco della “Balena blu”? È, appunto, un gioco: sveglia alle 4.20 del mattino, film dell’orrore a volontà, video satanici, foto-selfy sui tetti dei palazzi più alti della città, balene incise su braccia e mani con dei taglierini. Queste sono solo alcune delle cinquanta regole allucinanti della “Balena blu”, il gioco dell’orrore che ha già ucciso piú di 200 adolescenti in Russia e altrove, in Europa, portandoli al suicidio. La “Balena blu” è una missione che gli inventori del gioco, detti anche curatori o tutor, danno a ragazzini tra i 9 e i 17 anni scelti su Internet. Per 50 giorni, i giovani che decidono di giocare devono rispettare delle regole assurde senza farsi scoprire dai loro genitori. Di nascosto devono superare così una serie di livelli. Al giorno tre, i giocatori inizieranno ad incidere disegni di balene sulle mani, sulle braccia e sulle gambe. Dal decimo sarà obbligatorio salire sui tetti dei palazzi più alti della città e scattarsi qualche foto-selfy da inviare sempre al curatore. Nel ventiseiesimo giorno, invece, la regola recita così: «Il vostro tutor vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla». Perché si parla di morte? Semplice: perché l’obiettivo finale della “Balena blu” è proprio la morte. Gli adolescenti che partecipano al gioco vengono convinti che solo con la loro morte possono raggiungere il massimo livello. E anche il suicidio deve seguire il disegno perverso dei curatori. Gli adolescenti, infatti, devono salire su un alto grattacielo e buttarsi giù dall’ultimo piano. Prima di morire i ragazzi non sono soli. Con loro, sui tetti, ci sono amici minorenni che riprendono la scena per far in modo che «quel gesto eroico» sia d’esempio per altri giovani. 
  3. (21 anni)
    Ho avuto occasione di trovarmi di fronte alla morte in varie occasioni: una persona che ha tentato il suicidio, una persona che si è drogata, ecc. Io non giudico, ma ritengo che un suicidio o il ricorso alla droga dimostri l’incapacitá di una persona di affrontare una determinata situazione, è un modo di fuggire da un problema che non si ha la forza di affrontare.
  4. (21 anni)
    La morte suscita in me una sensazione di fine, di conclusione. Peró questo atteggiamento nei confronti della morte ha avuto degli aspetti positivi, perché sono maggiormente spinta a vivere la vita piú intensamente, piú profondamente, piú utilmente: prima che tutto finisca, vivo!
  5. (19 anni)
    A me la morte fa molta paura e non riesco a spiegarmi perché si debba morire. Il fatto che la morte ponga fine alla vita e non sapere cosa possa succedere dopo, lo vivo in maniera angosciante. Mi interrogo continuamente su questo problema, ma non so dare una spiegazione.
  6. (20 anni)
    Per me la morte richiama la piccolezza e la debolezza dell’uomo. Inoltre l’idea della morte mi dá una scossa: mi fa sentire uguale a tutti gli altri. Per il fatto che tutti moriamo, siamo tutti uguali.
  7. Alessandra (20 anni)
    A me la morte non fa paura, anzi la vedo in maniera positiva, perché è il termine naturale della esistenza. Non riuscirei mai ad immaginare una vita “senza fine”, con tutti i limiti, malattie, guai, dolori, dispiaceri, delusioni, che abbiamo: sarebbe la cosa piú atroce che ci potrebbe capitare. La morte è un dato di fatto e va accettata. Ogni persona, nel momento in cui nasce, deve tener presente che avrá una fine. Fa parte della condizione umana. Di conseguenza, se si accetta coscientemente la propria vita, si deve accettare necessariamente anche la propria morte.
  8. (23 anni)
    Per me la morte dá un senso alla vita, ti fa capire come va vissuta. Io sono stato sul punto di morire. È stato allora che ho capito che avevo perso un sacco di tempo nei rapporti con le persone, andando dietro alle mie fisime, ai miei capricci, al mio orgoglio. Io mi sento realizzata quando imparo piú che posso dagli altri e quando dó piú che posso ad una persona che in qualsiasi momento posso perdere.
  9. (22 anni)
    Insegnare a vivere è insegnare a morire e viceversa. È chiaro che se penso soltanto alla morte mi taglio le ali, perché non penso a quanto di grande ci possa essere nella vita; e se penso soltanto alla vita, costruisco sul vuoto e alla fine tutti i progetti non hanno senso, svaniscono nel nulla, perché non sono vissuti nella prospettiva di una vita eterna, dopo la morte, che viene per tutti e che è immancabile.

IL PENSIERO UMANO DI FRONTE ALLA MORTE

Il pensiero antico (prima di Cristo)
Per la filosofia antica, la morte libera gli uomini da ogni sofferenza: essa è la soluzione di tutti i dolori; la morte non è né buona né cattiva, è “nulla” dal momento che riduce al nulla ogni cosa; dopo la morte non esiste nulla, la morte stessa è il niente, è l’ultimo traguardo di una corsa veloce.

Il pensiero medioevale  (dall’800 al 1300 dopo Cristo)    
Nell’età medioevale il male fisico, la morte, è strettamente connessa al peccato, il male morale, la morte “seconda”, è la morte quella dello spirito (cioè la morte eterna, cioè una vita eterna di dolore e di disperazione; la liberazione dal peccato, tramite la fede e le opere d’amore, porta al superamento della morte eterna e del dolore e della disperazione eterna e all’entrata o al passaggio alla vera vita eterna, vita di amore, di gioia e di felicitá eterna con Dio.

Il pensiero moderno (dal 1400 al 1800 dopo Cristo)
La filosofia moderna, sgancia l’uomo da ogni religione, da ogni peccato e da ogni trascendenza; la morte però viene vissuta con un senso di tristezza e di rimpianto. La morte appare come fine naturale di una vita tutta naturale. Nasce così negli uomini di questa età un’angoscia che il mondo medioevale risolveva religiosamente: sganciando la vita corporea da un aldilá, la morte è la fine di tutto e la stessa vita diviene un non senso.

Il pensiero contemporaneo (1900 dopo Cristo)
La morte non è una fine parziale, ma totale. Se la vita è più che un male, la morte non è un male, anzi un diritto, il sacro diritto naturale di chi soffre a liberarsi dal male, cioè dalla vita.
La morte non è solo il momento finale della vita ma è ció che costituisce la vita stessa. L’uomo si trova ad essere “gettato nel mondo” con un destino finale già segnato di cui egli è angosciosamente consapevole. La vita stessa è morte; vivere è un morire continuo, fino all’atto finale. Vivere è “essere per la morte” Per questo l’uomo non deve tentare di dimenticare la morte dedicandosi alla “cura del mondo”, a sprecare energie per realizzare chissá che cosa; non deve dimenticare la morte per dedicarsi ad una vita inautentica, cioè ad una vita che non è vita e che non gli lasci il tempo di riflettere su se stesso. Una vita autentica è quella che non sfugge all’angoscia, perdendosi nelle piccole cose del mondo e cercando di dimenticare ciò che l’attende.

Il pensiero attuale (2000 dopo Cristo)
Ai nostri tempi ci è capitata una curiosa avventura, abbiamo dimenticato che si deve morire. È ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l’insieme delle fonti scritte della nostra epoca. Una indagine ha rivelato che sui centomila libri usciti negli ultimi venti anni, solo duecento (una percentuale dello 0.2%) affrontavano il problema della morte. Libri di medicina compresi. «La nostra cultura moderna e postindustriale è la prima cultura che non ha elaborato una cultura della morte.Che non ha un orientamento nei confronti della morte. La morte è semplicemente diventata indecente. È stata rimossa». I motivi di questa rimozione vanno trovati, tra gli altri nella fine della società agricola, dove la morte era un fatto sociale e dove la concezione ciclica del tempo, faceva della morte un elemento di un ciclo cosmico. Il senso del ritorno è stato sostituito con il tempo lineare e progressivo che guarda sempre e soltanto al futuro. La morte, assieme alla paura della malattia e della vecchiaia, procura oggi quel terrore che nessuna delle culture del passato ha mai avuto. Nella società attuale il trapasso viene in tutti i modi nascosto perfino al malato, che non è più un protagonista, bensì una semplice comparsa succube della volontà altrui. Oggi la morte non è altro che un processo che avviene attraverso l’interruzione delle cure, decisa dall’equipe ospedaliera o dal medico, il quale ha il compito di liberare la famiglia da un peso così gravoso, e il luogo della morte è l’ospedale, che libera i luoghi della quotidianità (la casa) da una presenza così imbarazzante. Il moribondo non deve far altro che preoccuparsi di mantenere un accettabile stile di vita mentre muore. Sono lontani i tempi in cui il morente si congedava da familiari, parenti e amici, consapevoli e rispettosi del suo bisogno d’isolamento. In tal modo la persona umana viene derubata di quell’intimo momento che avviene nel luogo in cui vi è l’esalazione dell’ultimo respiro. Ora fino all’ultimo istante bisogna fingere che non si morirà mai.

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