PARABOLE
5 PARABOLE
3 Parabole della Misericordia:
a) la pecora perduta
b) la moneta smarrita e ritrovata
c) il figlio prodigo o il padre misericordioso
Premessa
- Esse hanno in comune:
- la sollecitudine per qualcuno o qualcosa che si è perso
- la gioia del ritrovamento
- 3 ritratti: un pastore, una donna, un padre
- Perché racconta queste parabole:
- Per rispondere alle critiche dei farisei che lo giudicano troppo misericordioso verso i peccatori e le prostitute
- Per far capire a loro che ogni persona umana è preziosa agli occhi del Padre
- Applicazione da parte di Luca e di Matteo alle loro Comunitá cristiane: l’intolleranza non è accettabile nella Chiesa!
a) Prima Parabola: LA PECORA PERDUTA (Luca 15, 1-7):
Introduzione: è rivolta agli scribi e ai farisei, nemici di Gesú che lo criticavano continuamente.
- Gli esattori delle tasse…: poveri spiritualmente (non se ne stanno in disparte come certe persone di oggi quando si parla di Dio o di religione, ma…) si avvicinarono per ascoltarlo! Hanno coraggio!
- Ma i farisei lo criticavano per questo: i “puri” non potevano non criticare chi aiutava gli “impuri”:
La Parabola:
- Cento pecore: un gregge, una notevole ricchezza! Cos’è una pecora?Per il pastore ció che conta non è il numero, ma l’animale in pericolo!
- Lascia… per andare a cercare quella che si è smarrita!
Chi glielo fa fare?
Per lui non contano né sacrificio, né tempo; conta solo quella pecora, un po’ birichina, che egli ama moltissimo. - “Fate festa con me…” :
Perché? Per descrivere il passaggio dall’ansia per la perdita, alla felicità per il ritrovamento?
Per motivi economici? Andare, cercare, trovare, festeggiar costa piú tempio e denaro di quanto valga una pecora!
Solo per amore! - Cosí è anche…
Ecco il gran finale! Come il pastore è felice per la pecora ritrovata… Cosí Dio si rallegra per un peccatore pentito, perché È CONTENTO DI POTER PERDONARE!
La Parabola cosí come è raccontata da Matteo (18, 10-14)
- È rivolta ai Capi della sua Comunitá affinché vadano alla ricerca del fratello perduto e gioiscano, facciano festa!
- Per i Pastori di oggi, il messaggio è chiaro:
- Uscire dai recinti sacri e andare fra le spine del mondo a cercare il fedele smarrito.
- Pregare è troppo poco, anzi è troppo comodo
- Chiamare ma anche prestare attenzione, perché la risposta potrebbe anche essere debole: la pecora oltre che smarrita, potrebbe essere ferita.
- Fare festa, quando un fratello decide di rimettersi sulla strada giusta: purtroppo questo essere molto contenti, tra i cristiani, è rarissimo; al massimo si dice: “Era ora”.
- Perché Gesú sceglie la figura del Pastore per rappresentare se stesso? I Pastori ai tempi di Gesú erano persone socialmente non stimate, erano ritenute ladri, delinquenti, pericolosi! Gesú lo sceglie come simbolo di se stesso perché il pastore è un capo, è un compagno, è un uomo forte, capace di difendere il gregge contro le bestie feroci, ma anche perché il pastore è pure delicato verso le pecore, conosce la loro debolezza, si sa adattare alle loro situazioni, le porta sulle braccia, le ama teneramente.
Gesú paragonandosi al buon pastore prende su di sé tutte queste belle qualità: la forza, la dolcezza, la solitudine, l’amore.
Seconda Parabola: LA MONETA SMARRITA E RITROVATA (Luca 15, 8-10)
- Immaginate lo STRESS di questa donna!
- si tratta di una misera casa (un monolocale) dove c’è tutto: cucina, stuoia a terra per dormire, polvere, brocce agli angoli, riserve di cibo; lí vive giorno e notte, lei, tutta la famiglia e dietro, in una specie di grotta, gli animali
- Deve accendere una lampada:
- Non perché è notte, ma perché la caverna è misera, senza finestre
- La dracma (o dramma): non era poca cosa, era la paga di un giorno di lavoro!
- Poteva essere una di quelle monetine con cui le donne arabe si ornano la fronte: è un piccolo capitale che le donne di casa per non perdere, portavano sempre con sé sulla fronte; non se le tolgano mai, neppure quando dormono!
- Per sfortuna una monetina si è persa! Ansia, paura; paura di essere sgridata e picchiata dal marito! Quindi ricerca minuziosa, finalmente premiata.
- “Fate festa con me…”
- Tutte e tre le parabole della misericordia finiscono con questa caratteristica della gioia e della festa.
- La gioia e la festa è la caratteristica della misericordia.
- Vuol dire che essere misericordiosi vuol dire essere gioiosi, o meglio che la misericordia produce gioia.
- Che misericordia è quella fatta col muso o quella che produce tristezza?
- Attenzione:
- La moneta è persa, non “si è persa”
- Il che vuol dire che Dio ricerca non solo coloro che si sono allontanati da Lui volontariamente, ma anche coloro che si sono persi involontariamente, non per colpa loro, casualmente.
- Il Dio di Gesú Cristo è un Dio disponibilissimo: non ricupera solo i fuggiaschi, ma anche gli smarriti.
- DA CHI È RAPPRESENTATO DIO in questa parabola? Da una donna! Questa è una novitá assoluta.
- La Chiesa dovrebbe ritrovare e valorizzare questa preziosa moneta che si chiama donna!
Conclusione:
- Se la donna anziché cercare, avesse spazzato via, fuori della casa, le “immondizie”, non avrebbe piú trovato la monetina
- Se il pastore invece di andare a cercare fosse rimasto tranquillo nell’ovile a riposare, non avrebbe ricuperato la pecora.
Si fa presto a spazzare, a buttare; è piu comodo riposare…, ma a che prezzo? con quali perdite? Al prezzo di un aumento di allontanamento della gente da Dio, al prezzo della perdita di molti fratelli.
LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO
(Lc 15, 11-32)
(primo tipo di spiegazione)
Quella di Luca 15, 11-33 è conosciuta come la parabola di un figlio “prodigo”, sciupone, sprecone, spendaccione con i soldi degli altri, non suoi, non guadagnati col suo sudore e con i suoi sacrifici. Il racconto rappresenterebbe il ritratto fedele della storia di ogni uomo ribelle, che Gesù racconta allo scopo di mettere in guardia le persone dalla attrazione e dal pericolo di vivere la propria libertà lontano da Dio, facendo a meno di Dio: infatti chi si allontana da Dio va a finire male.
Questa interpretazione, peró è una interpretazione superficiale, perché ci presenta l’immagine di un Dio, che ci tiene ad imporsi a noi come “signore” , come “padrone” dell’uomo, affermando la sua superiorità a scapito della libertà delle proprie creature. Inoltre ci vorrebbe far capire che il bene è giusto da fare, peró esso essendo obbligatorio, fa sí che diventi un po’ pesante, noioso, togliendoci la gioia di vivere; perciò il, bene è bene per gli altri ma per colui che lo fá diventa quasi un “male”. Il male invece è cattivo, ma fa venire l’acquolina in bocca, è gratificante, accende il cuore della voglia di vivere; esso quindi diventa, quasi, è un bene per se stessi, un piacere, anche se per gli altri è sempre un male! Da questo modo di pensare si conclude che il figlio minore ha scelto sí, la strada del male, me essa era piacevole e gratificante; mentre il figlio maggiore ha scelto la strada del bene, sí, ma una strada dura e faticosa. Il figlio minore è l’immagine del peccatore, il figlio maggiore è il modello da seguire. Pensando in questo modo, noi quando pensiamo a Dio, pensiamo all’”obbligo” e alla “noia”. Non è vero che molte persone quando pensano a Dio e alle cose di Dio (come per esempio alla Messa o alla preghiera), pensano subito a qualche cosa di noioso?
Ma Dio non lo chiamiamo Dio della vita?
Noi, quindi, dobbiamo rileggere questa parabola ad un livello più profondo.
Questa é la Parabola di due figli: figli che hanno due caratteri diversi, incompatibili tra di loro, senza la possibilità di una vera comunicazione (i due fratelli non entrano mai in relazione diretta tra loro, non si parlano mai, non si incontrano mai). È una caratteristica cara alla Scrittura, la quale – già a partire dai primi capitoli della Genesi – ci presenta la storia di due fratelli: Caino che uccide Abele, l’uomo giusto.
Le storie di lotte tra fratelli nella Bibbia sono numerosissime (Giacobbe con inganno ruba la benedizione di primogenitura che spetta ad Esaù; Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli e così via). È questa la tragica condizione esistenziale in cui vivono gli uomini, sembra che la fratellanza non sia possibile. Sembra mancare qualche cosa.
LE IDEE CHE SI HANNO SU DIO
Il cuore della parabola è il Padre: tutto ruota intorno alla figura del Padre ed al suo dare la vita per i suoi figli. La personalitá di questo Padre è diversa dal nostro modo di pensare, è scandalosa e si scontra con l’idea che noi abbiamo di Dio: cioé di uno che è onnipotente, che si impone, che punisce e castiga, che ha creato l’inferno e che sta sempre lí a controllare ogni nostra piú piccola azione. Non solo, ma l’idea che abbiamo di Dio condiziona tutta la nostra esistenza e condiziona anche il nostro rapporto con gli altri.
Cominciamo a correggere le nostre idee su Dio.
Una verità che sta molto cara a Gesù Cristo e che lo spinge a raccontare questa parabola, è questa: noi siamo figli di Dio. In quanto figlio, ogni uomo è anche erede di Dio: non per il fatto che l’uomo merita l’eredità, ma semplicemente perché è figlio. E dato che non possiamo impedire a Dio di riconoscerci come figli prediletti, l’unico modo di rifiutare questa eredità è distruggerla e vivere non da figli ma da nemici. La parabola parla appunto di un rapporto conflittuale tra l’uomo e Dio: da una parte un amore gratuito, incondizionato e a fondo perduto; dall’altra l’incomprensione di questo amore e il suo rifiuto.
Gesù sta raccontando questa parabola a chi? Ai peccatori? No! Egli la sta raccontando proprio a dei “fratelli maggiori” (ai farisei, ai giusti, ai buoni), i quali appunto perché si ritengono buoni, giusti e persone religiose) non accettano di entrare nel banchetto del Regno, non accettano la personalità di un Padre cosí misericordioso! Gesù ha quindi voluto dare una Buona Notizia soprattutto ai fratelli maggiori, a coloro che presto lo metteranno a morte.
Perché non accettano un Padre cosí misericordioso, come lo descrive Gesú?
Chi è il Padre per loro? Dovremmo domandarcelo anche noi: chi è Dio per noi?
Il rancore, l’odio reciproco dei due figli sono intimamente legati all’immagine che essi hanno di loro Padre. Il Padre apparentemente sta in secondo piano, quasi fosse una persona senza spina dorsale; il suo comportamento sembra addirittura scandaloso per la nostra coscienza di figli maggiori, di persone perbene: noi ci saremmo comportati diversamente con un figlio cosí scapestrato, quale era il figlio minore; questo Padre, infatti, dà la Vita per i suoi figli, perché pensa che essi ne abbiano bisogno. E lo fa umilmente, semplicemente donandosi: divide la vita fra di loro. Questo gesto, cosí pazzesco e assurdo, gli costa necessariamente la sua vita e costituisce il centro della Buona Notizia.
Noi siamo portati a mettere l’attenzione sui due figli, e ci identifichiamo nell’uno o nell’altro a seconda del nostro temperamento e delle nostre simpatie; passa invece in secondo piano la figura del Padre che dá la vita. La verità è che la figura di questo Padre cerchiamo in tutti i modi di cancellarla, perché essa ci mette in crisi.
IL FIGLIO PIÙ GIOVANE
Ora disse: “Un uomo aveva due figli; e disse il più giovane di loro al padre: “Padre, da’ a me la parte della sostanza che mi tocca”. Egli poi divise tra loro la vita. Due figli, il maggiore e il minore. Due caratteri e temperamenti distinti, due modi diversi di pensare, di rapportarsi, di comportarsi. Intorno, una casa piena di ricchezza e di lavoratori tutti impegnati nel lavoro e lontano tanti ettari di campi che si perdono all’orizzonte.
Del padrone non conosciamo molto. Tutto quello che veniamo a sapere lo si ricava dal suo rapporto con i figli o meglio dall’immagine che i due figli hanno del padre: è nella relazione con i due figli – una relazione conflittuale e fino all’ultimo sangue – che noi conosciamo il suo vero cuore. Finché i figli non si confrontano con questo padre, gettandogli addosso il gelo, il vuoto e la morte che hanno nel cuore, non potranno assolutamente conoscerlo bene.
“Padre, da’ a me la parte della sostanza che mi tocca”.
Oggi, come allora, è con la morte di una persona che la sua eredità viene trasmessa ai figli. In base al diritto ebraico, l’eredità – in assenza di altri parenti – veniva così divisa: 1/3 per il figlio minore ed i rimanenti 2/3 per il primogenito; era possibile al padre, mentre era ancora vivo, anticipare l’eredità ai figli, tuttavia l’erede non avrebbe potuto disporne fino alla morte del testatore. Queste notizie sono molto importanti, poiché mettono in luce una situazione piuttosto insolita per la legislazione del tempo. Il figlio più piccolo avrebbe potuto sì chiedere l’anticipo dell’eredità ma non la disponibilità economica: in teoria era il proprietario, ma in pratica il padre poteva continuare ad usarne liberamente. Il figlio minore rivendica quindi un diritto non suo, richiede la disponibilità di somma di denaro che non gli è dovuta. Che cosa significa questa richiesta di eredità? Inoltre la parola greca utilizzata (“bioV-bios) in italiano significa ‘bene’ ma soprattutto significa ‘vita’: l’eredità, quindi, non ha solo un valore economico ma anche umana- spirituale: è ciò che un padre lascia della sua vita al figlio, è la trasmissione di quello che è lui stesso. La pretesa del figlio di questa eredità equivale ad una ‘rapina della vita del padre’, equivale ad una richiesta della sua morte. Chiedendo l’eredità, il figlio considera suo padre come morto per lui. E’ come se gli dicesse “Tu sei la mia morte, crepa! Senza di te la mia vita rifiorirà!”. Questo passo è scandaloso e spesso taciuto. E’ un punto di partenza essenziale per capire la Buona Notizia di questo Padre ed ciò che accade nell’ora della Passione di Gesù. Il figlio minore considera il Padre come colui che lo soffoca, che gli toglie la vita e la libertá: una volta tolto di mezzo il padre – pensa in cuor suo – potrà finalmente realizzarsi pienamente come persona umana. È un po’ quello che pensa in genere la gente: “Se non ci fosse Dio saremmo tutti piú liberi”. Egli poi divise tra loro la vita. Immedesimiamoci però nel padre che si sente augurare la morte dal proprio figlio: queste parole, oltre esprimere il fallimento della propria paternità, sono come una pugnalata al cuore. Di fronte alla pretesa dell’eredità, avrebbe potuto reagire diversamente ed in maniera più autoritaria: ad esempio umiliando la prepotenza del figlio, far la voce grossa, mandarlo fuori di casa senza un soldo. Questo Padre però fa una cosa diversa, perché intuisce nel profondo del suo cuore che l’unico modo di liberare suo figlio dalla morte che si porta nel cuore è prenderla su di sé. Per ora il dolore di questo padre resta in sordina; verrà ripreso più avanti. Divide le sostanze: un terzo dell’eredità va così al figlio minore. Finalmente il figlio è libero di andare alla ricerca della sua vita, verso l’emancipazione dal suo stato di inferioritá; distruggere la sua identità di figlio per costruire quella di padrone della propria vita. E, non molti giorni dopo, raccolte tutte le sue cose, il figlio più giovane emigrò in paese lontano; e là sperperò la sua sostanza vivendo insalvabilmente. Presumibilmente la maggior parte delle ricchezze dell’eredità consistono in beni immobili ed in terreni. Questo figlio ha dovuto così convertire in liquidità tutti questi beni in pochi giorni (lett. non molti giorni dopo). Questa fretta sembra essere dettata dalla volontà di disfarsi prima possibile di un rapporto scomodo di dipendenza: forse svendendo tutto, il figlio vuole troncare quel cordone ombelicale che lo tiene – economicamente ed affettivamente – legato al padre. Questa eredità inizia così ad essere dilapidata e sprecata. Sempre in una prospettiva realistica non possiamo pensare che questo ragazzo sia partito solitario con il suo fagottino, se ci viene detto che è partito dalla casa paterna con tutte le ricchezze ricevute: viaggiando, privo di protezione, avrebbe corso il rischio di essere derubato ed ucciso. E’ quindi realistico che abbia assoldato un manipolo di ‘fedeli’, protettori della sua persona e custodi delle proprie ricchezze e sia partito con una carrozza, un gruppo di servi e il tesoro. Tra sé e sé penserà: “L’ho sognata, giorno e notte. L’ho sperata, questa mia libertà. L’emancipazione dal mio essere figlio. Ora non ci saranno più ordini da seguire, etichette da rispettare. Adesso ci sono solo io, io e me stesso, adesso l’orizzonte si allarga, devo andare lontano, più lontano”. Lontano. Il paese più lontano possibile dalla casa del padre. Il punto più distante del figlio dalla propria identità. Possiamo negare ed infangare la nostra verità di figli prediletti ma non distruggerla, perché essa non dipende da noi stessi e da ciò che facciamo. Agli occhi di Dio rimaniamo figli, anche se facciamo violenza a questa nostra verità, perché ciò che siamo non può essere cancellato. E allora più il figlio si allontana, più giunge nel paese dove non è più chiamato “figlio” ma solo “padrone” o “schiavo”, a seconda delle ricchezze e del prestigio di cui disporrà. “E là sperperò la sua sostanza vivendo insalvabilmente”. Ora è tutto più semplice: la stima, il rispetto, la considerazione e soprattutto l’amore degli altri si possono comprare. Un meccanismo molto semplice: io compro, tu vendi. Con il tempo però questo meccanismo porta alla totale distruzione del rapporto gratuito tra le persone, l’unico modo di cui ogni uomo ha bisogno per potere essere se stesso. Inoltre i soldi non sono infiniti. Prima o poi finiranno, soprattutto se non si lavora e non li si guadagna. Per un po’ di tempo riuscirà con tutta probabilità a farsi prestare dei soldi proprio dagli abitanti del paese lontano. Fino al giorno in cui le voci girano e si viene a sapere che questo ricco signorotto non ha più il becco di un quattrino: è finito sul lastrico. Il gioco è finito, i creditori sono alla porta, non resta che scappare, per non essere gettati in prigione o peggio ammazzati dagli aguzzini. Gli stessi suoi servitori d’un tempo se la sono data a gambe, ma non prima di aver ottenuto una ricca buonuscita. Ora resta solo. Dove andare? Ora, dilapidate tutte le sue cose, venne una carestia forte per quel paese; ed egli cominciò ad essere nell’indigenza. E’ il momento in cui questo ragazzo deve fare i conti con la realtà: ora che non ha più niente, fa l’esperienza di valere meno di niente; a nessuno importa più di lui, della sua vita. Ecco che, cadendo dalla posizione di essere padrone, si ritrova improvvisamente nella condizione di schiavo, senza una casa, senza un soldo, senza nessuno e coinvolto nella miseria in cui si trova tutto il paese. Anziché rassegnarsi, questo figlio mostra una certa intraprendenza: ciò che conta ora è trovare qualcosa da mangiare, per non morire di fame; e andò a incollarsi a uno dei cittadini di quel paese; e lo mandò nei suoi campi a pascere i porci. E desiderava saziarsi delle carrube che mangiavano i porci e nessuno gliene dava. Istinto di sopravvivenza. Di fronte al rischio di rimetterci la pelle, morendo di fame, egli va in cerca di un nuovo padrone, al quale letteralmente ‘si incolla’. Interessante l’uso di questo verbo ‘incollarsi’. Questo legame, questo attaccamento profondo, rimanendo sempre libero e se stesso, si puó avere solo con Dio: l’uomo infatti si può attaccare-incollare solo al suo vero Padre, al vero Signore; solo cosí rimane se stesso, rimane figlio, rimane libero. Chi rifiuta questa relazione, chi rifiuta di essere figlio, riconoscendo Dio come suo Padre, non potrà che attaccarsi a padroni diversi, questa volta come schiavo. In questa situazione, mentre pascola dei maiali, bestie immonde per la cultura ebraica, sperimenta di valere meno di loro. Ora, venuto in se stesso, disse: Quanti salariati del padre mio sovrabbondano di pani; io, invece, di carestia qui perisco. Mi leverò e andrò da mio padre e dirò a lui: Padre, peccai verso il cielo e al tuo cospetto; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio: fa’ me come uno dei tuoi salariati. E, levatosi, venne da suo padre. Non sappiamo che cosa frulli per la testa di questo ragazzo. Quel che è certo che rischia di morire. Tornare o non tornare è una questione di vita o di morte, nel vero senso della parola (io qui perisco). La decisione di tornare o restare non si può vedere come se fosse una scelta presa a tavolino, con buon senso e considerando tutti i pro e i contro. Il corpo si ribella con tutte le proprie energie alla morte, l’istinto di sopravvivenza è più forte di ogni altra cosa. E per sopravvivere, il figlio ritorna. Siamo portati a pensare che è in questo momento che avviene la conversione, il pentimento. Ma è davvero così? Possiamo davvero credere che questo ‘disgraziato’ cambi idea dal giorno alla notte? Che in questa situazione estrema di necessitá nasca una conversione autentica oppure è solo la fame che lo spinge a far questo? Quest’ultima ipotesi oltre ad essere la più realistica, trova anche una chiara conferma nelle sue parole: “Quanti salariati del padre mio sovrabbondano di pani; io, invece, di carestia qui perisco”. Non ci deve far scandalizzare che il figlio voglia tornare solo per salvarsi la vita. Infatti già questo, già il tornare solo per salvarsi la pelle è vitale! E’ un buon segno, di slancio positivo e non di egoismo! Un segno di resurrezione; e infatti il verbo “levatosi” (lett. anisthmi usato nei Vangeli per indicare la risurrezione) indica una decisione che, al di là degli intenti, lo fa passare dalla morte alla vita. Chiariamo bene una cosa: questa non è la conversione evangelica! Nella parabola deve ancora arrivare, e giungerà tra breve inaspettata, come un terremoto che sconquassa tutto, distruggendo l’immagine malefica che il figlio ha di suo padre. La conversione evangelica non è qualcosa che possiamo determinare noi, perché è iniziativa assoluta del Signore; noi possiamo solo accoglierla o rifiutarla. Finora potremmo chiamare quello di questo ragazzo un ravvedimento. Ma la conversione evangelica è ben di più. Guardate con che insistenza questo figlio disgraziato continua a chiamare il “Padre”. In genere, quando ci impantaniamo nel nostro male, c’è un istinto fondamentale che emerge in noi: preferisco stare male da solo, piuttosto che farmi aiutare. Infatti accettare una mano significherebbe il mio fallimento e la superiorità di Dio. Satana stesso mette dentro di noi sentimenti di orgoglio che ci spingono a non accogliere un perdono gratuito e a fondo perduto ma a cercare di espiare la colpa, per potermi riscattare da solo con la mia volontà, senza che l’aiuto del Signore diventi fondamentale. Il figlio decide di tornare. Questa sua decisione gli evita la morte. Ma la sua vera rinascita deve ancora avvenire, e avverrá quando vede il padre nella sua vera luce, una luce abbagliante, quando vede un padre nuovo, che non aveva mai prima immaginato. E questo ci fa capire che il figlio non aveva mai conosciuto veramente chi era il Padre. E da che cosa lo capiamo? Dal fatto che, nel prepararsi le scuse, nel prepararsi il discorsetto da fare, chiede di essere considerato e trattato come servo, non come figlio.
IL PADRE
Ora, mentre ancora stava lontano, lo vide suo padre e si commosse e correndo cadde sul suo collo e lo baciò. “Mentre ancora stava lontano”: il figlio si è pentito? Eppure egli è ancora molto lontano dal Padre, egli ancora non conosce chi è veramente suo padre. Possiamo nella vita stare a contatto ogni giorno e per lungo tempo con una persona senza scoprirne la propria reale identità. Per Dio questo rischio è ancora più grande: dentro di noi qualcosa ci suggerisce che egli, in fondo, è cattivo, anche e soprattutto quando le cose vanno male. Spesso pensiamo al Signore come un giudice crudele e severo. Chi si avvicina a Dio con queste idee nella testa e con questi sentimenti nel cuore, è ancora distante, lontano dalla vera conversione, non è ritornato ancora a Dio (“mentre ancora distava lontano”). Il grande cuore del padre capisce i sentimenti del figlio e si commuove: capisce la sua sofferenza, il suo conflitto, nel suo disperato tentativo di esprimergli qualche parola di pentimento. Ma qui risalta l’enorme distanza tra ció che noi pensiamo di Dio e la sua vera identità. Dio è onnipotente proprio in questo: lui soffre dentro di sé il male che ci facciamo noi stessi, e se ci vede tornare, esulta di gioia. E’ così gli si getta addosso e lo bacia. Questo gettarsi al collo deve essere carico di tutto il suo dolore, di tutta l’apprensione sofferta per il fatto di avere un figlio in pericolo di vita. E’ un gesto liberatorio, che scarica in un attimo la tensione del Padre, sciogliendosi in pianto. E’ un gesto di comunicazione fisica, di contatto, con il quale il Padre ricopre la povertà del figlio con le sue grandi braccia e lo fa partecipe della sua sofferenza e dell’amore per un figlio perduto. Ora è chiaro: il vero peccato non è scappare dalla casa del Padre, ma non volermi fare amare nel punto dove ho più bisogno, non accettare di essere riportato a casa. Qui il figlio fa l’esperienza della Buona Notizia. Qui avviene la conversione evangelica. Non è lui a decidere con la sua volontà di pentirsi e a conquistare così il perdono ma è la presenza dell’amore del Padre che lo ricrea, lo fa rinascere. Le braccia aperte del Padre, che la paura avevano deformato in due mani soffocanti e opprimenti, ora diventano quello che in realtà sono: due braccia aperte, che implorano di essere accolte ma che sono pronte anche ad aspettarsi il mio rifiuto. Ora disse il figlio a lui: “Padre, peccai verso il cielo e al tuo cospetto; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma a che servono queste parole, preparate come un discorsetto? Rispetto alla dolcezza di questo abbraccio che viene prima e indipendentemente dal nostro mostrarci pentiti? Ora il padre disse ai suoi servi: “Presto portate fuori una veste, la prima, e vestitelo; e date un anello alla sua mano e sandali ai piedi e portate il vitello, quello riempito di grano, immolatelo e, mangiando, facciamo festa, perché costui, il figlio mio, era morto e rivive, era perduto e fu ritrovato. Ecco la conversione evangelica: convertirmi al fatto che il Padre dà la vita e muore per me. E’ accettare che il dono di questa vita, immeritato, mi fa entrare in una festa, nella quale gusto il mio essere rivestito da un amore fino alla morte! A questo punto il figlio non fa più niente ma contempla quello che gli viene fatto dal Padre. Essere rivestito, da nudo che era, dell’amore del padre. La veste indica l’identità di figlio, la quale, anche se viene negata e infangata, resta tale. Non dipende per nulla dal mio merito. C’è sempre agli occhi del Padre. Tutto ciò che era stato dal figlio dilapidato gli viene ridonato. E l’anello. E poi i sandali: lo schiavo non porta sandali. E portate il vitello, quello riempito di grano, immolatelo e, mangiando, facciamo festa: questa festa non è il lieto fine di un film. È vittoria della vita sulla morte, è risurrezione! E noi siamo invitati a gioirne nel profondo del cuore, per un peccatore che si pente e non ad arrabbiarci e a fare gli offesi come ha fatto il fratello maggiore.
IL FRATELLO MAGGIORE
Questa parabola Gesù la sta raccontando a dei fratelli maggiori. Sono i giusti, i buoni, le persone perbene, le quali, proprio perché si sentono buone e perché ritengono di stare nel giusto ‘nientificano ed umiliano’ gli altri (Lc 18,9). La Buona Notizia raccontata dalla Parabola rappresenta per questi fratelli maggiori una ‘porta stretta’ nella quale essi faticano ad entrare, proprio perché sono gonfi d’orgoglio. Anzi è impossibile che essi entrino. L’unico modo per entrare è che essi, riconoscendo di non potersi salvare da soli, accettino di farsi salvare: così diventano piccoli, umili ed entrano nel banchetto del Regno.
E cominciarono a far festa.
“Ora il suo figlio, il più vecchio, era in campagna. E quando, venendo, si avvicinò alla casa, udì sinfonie e danze. E, richiamato uno dei servi, s’informava che mai fosse ciò. Ora egli disse a lui: iI tuo fratello venne e tuo padre sacrificò il vitello riempito di grano perché sano lo riprese”.
Questa festa, questa gioia e questa musica sono una mazzata per il figlio maggiore. Il minore ha scelto di ribellarsi ad un padre ritenuto “severo e dispotico”; il maggiore invece ha spalle forti e resiste. Ma in questo modo emerge che per il maggiore, essere figlio non è una festa e una gioia, ma una condanna a morte. Egli è fedele al Padre perché si aspetta che il padre premi la sua fedeltá, premi la sua obbedienza e che punisca coloro che non sono come loro, fedeli e ubbidienti. Ma quando egli viene a sapere e si accorge che il fratello, non solo è stato accolto ma che vi sono anche canti, balli e festa per questo cattivo e disgraziato, allora scoppia. Ferito nell’orgoglio, si sente preso in giro da suo padre, si sente non voluto bene. Ora si adirò e non voleva entrare. Ora il padre suo, uscito, lo consolava. Ora, rispondendo, disse a suo padre: Ecco, da così tanti anni ti sono schiavo e non trasgredii mai un tuo ordine; e a me non desti mai un capretto perché facessi festa con i miei amici. Ma ora quando venne il figlio tuo, costui, che divorò la tua vita con le meretrici, immolasti per lui il vitello riempito di grano. Anche il figlio maggiore sente il padre come un Padre cattivo, crudele, oppressore, avaro. E allora che fa? Diversamente dal fratello minore che aveva scelto la strada di liberarsi di un padre cosí, andando via di casa, egli si difende da lui decidendo di attuare la strategia del dovere: tenerselo buono buono attraverso una vita fatta di sudore senza gioia. Senza un capretto, senza gusto e colore. E’ chiaro quindi che esploda di rabbia nel vedere il trattamento riservato al fratello. Immaginiamolo in questa lamentela: “Un capretto. Una carezza, un sorriso. Questo ti ho sempre chiesto. Speravo che me lo dessi, come ricompensa del mio servirti sempre, del mio stare al tuo gioco, del mio esserti fedele. Ma tu niente. Ho bisogno di sapere che lui è orgoglioso di me. Ma questo padre evidentemente, oltre ad essere avaro, è anche lunatico. Tutto dipende dalle sue lune, dall’umore del momento. Ora il sentire le danze e le musiche dedicate al suo figlio delinquente e scialacquatore è per me un affronto insopportabile. Ai delinquenti le cose vanno sempre bene, a me che sono buono, devoto, fedele, vanno sempre male. Ma dico, mi avete preso per fesso? Ma, andate a quel paese, tutti quanti. Tu padre, per primo. Questa cosa che mi hai fatto è una pugnalata alle spalle. Prima mi hai rovinato la vita con i tuoi opprimenti comandamenti, adesso me la uccidi, accogliendo questo buono a nulla. Se io avessi avuto solo la metà dei suoi soldi, adesso sarei ritornato con il capitale raddoppiato. Avrei fatto fruttare questo patrimonio, saresti stato fiero di me. E invece questo tuo figlio, non solo non è stato in grado di investirli, ma è anche pieno di debiti. E tu osi fare finta di niente? Come se nulla fosse accaduto? Sorvoli. O forse hai bisogno del vino e del buon cibo per dimenticare che razza di padre sei e che razza di figlio ti ritrovi. Ora dubito della tua lucidità mentale. Probabilmente hai qualche rotella che non va piú. E che succederebbe se anch’io facessi come lui? Tu vuoi più bene a lui che a me. Ma non ti fai scrupolo di cosa passi dentro il mio cuore. Sì, hai salvato un figlio perduto. Ma ne hai perduto uno già salvato. Bell’idea di giustizia che hai. Allora le alternative sono due: o non ti rendi conto ritrovando lui stai perdendo me oppure devo concludere che a me non ci tieni nemmeno un po’. Che rispondi? .
Le parole del figlio maggiore le sentiamo profondamente vere; ma non è diverso da suo fratello: ha la stessa sua idea: quella di un Padre che ama i figli solo se lo meritano. Deve ancora sperimentare che l’amore del Padre verso i figli non è legato al loro lavoro, alla loro bontá, alla loro perfezione. L’amore che cerca, ce l’ha gratis, sempre. A portata di mano. Deve capire che l’amore non si compra e non si vende, perché è dono.
Ora il Padre disse a lui: Figlio, tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue. Ora bisognava far festa e gioire perché il fratello tuo, era morto e visse.
Immaginiamo ora la risposta del padre con queste parole: “Figlio, sono contento di te. Di quello che sei da sempre, fin da quando ti ho tenuto in braccio per la prima volta. Il giorno che hai imparato a pronunciare il mio nome sulla tua bocca. I miei occhi brillano ora come allora, quando ti vedo. Coraggio aggrediscimi, picchia duro, dimmi tutto quello che ti fa star male. Non perché io sia un padre ingiusto, non perché tu abbia ragione, ma perché è solo in questa sinceritá che ci potrà essere uno spiraglio di relazione tra me e te. Credi che io sia stupido? Che non capisca fino in fondo tuo fratello? Sono già morto per lui, il giorno che partì. Ed oggi però mi sento rivivere perché è successo un miracolo:lui è vivo. Devi capire che un Padre non decide di amare od odiare: ama e basta. L’amore e l’odio, l’accoglienza o il rifiuto non dipendono da quello che voi fate ma da ciò che io sento per voi. Sì, sono un buono a nulla, non son capace di cambiare il mio amore in odio. Nemmeno se mi uccidete.
E allora io ti dico: entra nel banchetto della vita, non farti scrupoli. In questo banchetto festeggiamo un figlio morto e ritrovato. Ma questo figlio sei anche tu. Guai se pensassi che questo banchetto è per la celebrazione della tua bontá, della tua fedeltá o della tua giustizia, perché io ogni giorno celebro una festa per tutti voi, giusti o ingiusti, pentiti o non pentiti. Il dramma è che in questa festa tu non vuoi entrare. Te la sto offrendo la gioia del banchetto. Forza, figlio, il mio cuore freme affinché anche tu ritorni. Sì, non sei mai scappato lontano, ma anche tu nel cuore sei distante da me. Mi credi un padre ingiusto che fa preferenze. Non è cosí! Fidati! Te ne prego, entra con noi. Sì, hai salvato un figlio perduto. Ma ne hai perduto uno già salvato. Bell’idea di giustizia che hai. Allora le alternative sono due: o non ti rendi conto ritrovando lui stai perdendo me oppure devo concludere che a me non ci tieni nemmeno un po’. Che rispondi? .
Le parole del figlio maggiore le sentiamo profondamente vere; ma non è diverso da suo fratello: ha la stessa sua idea: quella di un Padre che ama i figli solo se lo meritano. Deve ancora sperimentare che l’amore del Padre verso i figli non è legato al loro lavoro, alla loro bontá, alla loro perfezione. L’amore che cerca, ce l’ha gratis, sempre. A portata di mano. Deve capire che l’amore non si compra e non si vende, perché è dono.
Ora il Padre disse a lui: Figlio, tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue. Ora bisognava far festa e gioire perché il fratello tuo, era morto e visse. Immaginiamo ora la risposta del padre con queste parole: “Figlio, sono contento di te. Di quello che sei da sempre, fin da quando ti ho tenuto in braccio per la prima volta. Il giorno che hai imparato a pronunciare il mio nome sulla tua bocca. I miei occhi brillano ora come allora, quando ti vedo. Coraggio aggrediscimi, picchia duro, dimmi tutto quello che ti fa star male. Non perché io sia un padre ingiusto, non perché tu abbia ragione, ma perché è solo in questa sinceritá che ci potrà essere uno spiraglio di relazione tra me e te. Credi che io sia stupido? Che non capisca fino in fondo tuo fratello? Sono già morto per lui, il giorno che partì. Ed oggi però mi sento rivivere perché è successo un miracolo:lui è vivo. Devi capire che un Padre non decide di amare od odiare: ama e basta. L’amore e l’odio, l’accoglienza o il rifiuto non dipendono da quello che voi fate ma da ciò che io sento per voi. Sì, sono un buono a nulla, non son capace di cambiare il mio amore in odio. Nemmeno se mi uccidete.
E allora io ti dico: entra nel banchetto della vita, non farti scrupoli. In questo banchetto festeggiamo un figlio morto e ritrovato. Ma questo figlio sei anche tu. Guai se pensassi che questo banchetto è per la celebrazione della tua bontá, della tua fedeltá o della tua giustizia, perché io ogni giorno celebro una festa per tutti voi, giusti o ingiusti, pentiti o non pentiti. Il dramma è che in questa festa tu non vuoi entrare. Te la sto offrendo la gioia del banchetto. Forza, figlio, il mio cuore freme affinché anche tu ritorni. Sì, non sei mai scappato lontano, ma anche tu nel cuore sei distante da me. Mi credi un padre ingiusto che fa preferenze. Non è cosí! Fidati! Te ne prego, entra con noi.
IL PADRE MISERICORDIOSO E IL FIGLIO PRODIGO
(secondo tipo di spiegazione)
(prima parte)
Lc 15, 11-32
Un uomo aveva due figli, questo modo di iniziare la parabola è strano, sarebbe stato infatti naturale iniziare il racconto dicendo: un padre aveva due figli. Come mai Gesù utilizza invece la prima espressione? Perché i due figli sono incapaci di capire sia il cuore del padre loro, sia i suoi progetti su di loro, ed allora ai loro occhi quel padre non è un padre ma soltanto un uomo. Un uomo dal quale allontanarsi appena possibile, oppure un uomo a cui si serve e si obbedisce più per paura o per forza che per amore.
Questa storia è la nostra storia, perché anche noi, come i due figli della parabola, non comprendiamo i disegni ed il cuore del Padre nostro che è nei cieli. Da questo fatto di non capire Dio, deriveranno tante nostre idee sbagliate su Dio e tante conseguenze nella nostra vita.
C’è dunque un primo tempo in cui i figli non capiscono, per esempio i genitori; credendo però di capire, vogliono costruirsi la loro vita secondo un loro progetto. Il figlio più giovane si rivolge infatti al padre dicendo: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta. Queste parole sono l’annuncio di un disagio e di un progetto che da lungo tempo occupano il cuore di questo giovane. Il seguito del progetto verrà fuori alcuni giorni dopo quando, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano.
Come mai il secondogenito abbandona la casa paterna?
È bene a questo punto cercare di riflettere sui motivi che spingono il figlio ad abbandonare la casa paterna. Tra questi possiamo sicuramente escludere la necessità di trovare un lavoro o quella di rimediare ad uno stato di ristrettezze economiche. Infatti, non solo il figlio maggiore lavora nella casa del padre, ma anche molti servi vi prestano la loro opera e per questo ricevono pane in abbondanza, segno questo di ricchezza, di prosperità, di giustizia e di generositá del padre. Allora perché decide di andarsene? Che cosa gli manca? Cos’è che non gli piace in casa sua? Per rispondere a queste domande dobbiamo tenere presente la risposta che il figlio maggiore dá, al padre: io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Da queste parole possiamo ricavare che la vita quotidiana nella casa del padre era caratterizzata dal servizio, dall’ubbidienza e dalla austeritá, e questo per anni ed anni. Non c’erano molte occasioni di festa in quella casa, bisognava lavorare sodo, il padre poi, poteva ordinare oggi una cosa, domani un’altra, dopodomani un’altra ancora. Evidentemente, un simile regime di vita poteva provocare, a lungo andare, una certa insofferenza e un certo disagio. Dobbiamo inoltre considerare le allettanti prospettive che il mondo esterno offriva.
Così, il pensiero di non servire più, di non ubbidire più, il pensiero di potersi liberare da ogni vincolo e da ogni regola, la prospettiva di dare libero corso ai propri desideri e alle proprie passioni, di concedersi ogni esperienza e ogni sfizio, formano nel figlio più giovane la convinzione che solo abbandonando la casa del padre avrebbe potuto realizzare pienamente la sua vita e trovare la vera felicità; come realizzare altrimenti questo sogno? Ecco allora la decisione, andrò da mio padre e gli dirò: dammi la parte di patrimonio che mi spetta.
La sorprendente condiscendenza del padre
E il padre, sorprendentemente, senza dire una parola divise fra loro le sostanze. Eppure sapeva che molto probabilmente a quella richiesta sarebbero seguiti eventi poco piacevoli. Allora perché la asseconda, perché si mostra così disponibile? Da notare che concede la sua parte di eredità anche al figlio maggiore che non gliela aveva affatto chiesta. Che cosa si nasconde dietro questo comportamento? questo comportamento esprime due caratteristiche di ogni autentico rapporto d’amore, caratteristiche che a seconda del comportamento delle persone coinvolte faranno di questo rapporto la più grande delle gioie o il più doloroso dei fatti. Una persona che ama veramente e correttamente un’altra persona si sente in obbligo di rispettare infinitamente la libertà della persona amata, anche se la persona amata utilizzerà questa libertà per sottrarsi all’amore di cui è oggetto; ecco perché il padre si mostra così disponibile alla richiesta del figlio. Ma in un rapporto d’amore c’è anche un’altra fortissima esigenza, ed è che colui che ama si aspetta di essere liberamente riamato dalla persona amata; ecco perché il padre concede la sua parte di eredità anche al figlio che non gliela aveva chiesta. Potremmo così riassumere il pensiero del padre con queste parole: fino ad oggi sono stato per voi un padre e voi siete stati per me dei figli; mi avete servito, ubbidito e onorato, e in un certo senso non potevate fare altrimenti, ma da oggi in poi voglio che siate liberi di continuare ad amarmi oppure di sottrarvi al mio amore, do a voi quanto serve per vivere autonomamente, potete fare dei vostri beni l’uso che riterrete più opportuno; continuare a rimanere nella mia casa deve diventare, da oggi in poi, il frutto di una vostra libera decisione. Un’attitudine come questa comportava evidentemente dei rischi, rischi che il padre ha deciso di correre in vista di una piú alta relazione d’amore, quella da amico ad amico. Queste cose ci sono suggerite dalla risposta del padre al figlio maggiore quando dice: figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo. Il rimanere sempre insieme e la disponibilità a mettere in comune i propri beni mostrano l’intenzione del padre di instaurare con il figlio un rapporto di amicizia. Ma entrambi i figli non capiscono questo progetto, e il loro peccato non è tanto di non capire, ma di non aver fiducia nella saggezza e nella bontà del padre; il loro errore è nel voler realizzare un’idea di felicità loro propria, idea che esclude la presenza del padre. Il più giovane infatti vuole cercare la felicità in un paese lontano, mentre il primogenito, quando pensa alla festa, la pensa con i suoi amici. Il padre li mette comunque nella condizione di scegliere liberamente se
aderire o sottrarsi al suo amore. Il figlio maggiore sembra fare la scelta giusta e decide di rimanere. Il più giovane invece, senza sottoporre il suo progetto al consiglio del padre, decide di realizzare quanto da tempo stava nel suo cuore: raccolte le sue, cose partì per un paese lontano.
L’inizio di un dramma
È l’inizio di un dramma, il dramma di un amore incompreso, ferito, rifiutato. Le sofferenze di questo dramma riempiono il cuore del padre. Per il figlio invece sembra avere inizio un tempo di libertà e di prospettive meravigliose: più si allontana più sembra respirare a pieni polmoni, più lontano andrà meglio sarà, perché meno correrà il rischio di incappare in eventuali richiami del padre. Partito per un paese lontano, vi giunge, e qui può finalmente vivere la sua vita così come lui la intende. Effettivamente, in un primo tempo, le cose sembrano andargli assai bene, riesce a prendersi le sue soddisfazioni, è circondato da amici, tanti amici, la vita gli riserva ogni giorno nuove esperienze e nuove emozioni. Non osservare più le regole come faceva nella casa paterna, sembra renderlo più libero, meno depresso, meno timoroso. La sua vita ed i suoi sogni sembrano pienamente realizzati, adesso sì la sua vita ha senso, adesso sì si sente felice. Ma prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, per tutti c’è una tempesta che viene a provare la solidità della felicità che uno si è costruito. Questa tempesta è caratterizzata da tre momenti; c’è un primo momento in cui il figlio scopre che i suoi soldi un po’ alla volta finiscono; deve quindi rendersi conto amaramente che tutti i suoi mezzi per costruirsi la sua felicità si sono ridotti a zero, non è tuttavia ridotta a zero la sua fame e sete di felicità; come soddisfare allora questa esigenza quando sono ormai finite tutte le sue sostanze?
Già a questo punto la sua situazione è critica, ma nel racconto c’è un particolare che contribuisce ad aggravarla di piú (e qui siamo al secondo momento): e qual’è? È la grande carestia che si abbatte su quel paese. Se non ci fosse stata questa grande carestia, il figlio avrebbe potuto sperare nell’aiuto di qualche amico, ma ora che tutti sono nelle strettezze anche questa possibilità gli è negata e la sua già precaria situazione si aggrava ancor di più. Pensa allora che, dandosi da fare, potrebbe riuscire a risollevarsi, decide così di cercare lavoro. Quello che trova non è un gran che, anzi, per uno che era abituato alla bella vita pascolare i porci doveva essere particolarmente umiliante, ma il colmo della disgrazia e dell’umiliazione è che nonostante il suo impegno e la sua buona volontà non riesce a risolvere i suoi problemi, continua ad aver fame, e si rende drammaticamente conto che sta correndo il rischio di morire di fame. È a questo punto che gli è negato l’estremo tentativo di risolvere almeno parzialmente il suo problema, avrebbe infatti voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. È così che il terzo momento della tempesta conduce l’infelice figlio a toccare il fondo, a rendersi conto del disastro estremo a cui è giunta la sua esistenza.
Per riassumere potremmo dire che i tre momenti della tempesta hanno contribuito a far sorgere nel figlio una triplice consapevolezza: 1 – La consapevolezza di non avere in sè le risorse sufficienti per soddisfare la sua fame e sete di felicità. 2 – La consapevolezza di non poter contare sull’aiuto degli abitanti di quel lontano paese. 3 – La consapevolezza che, in quel lontano paese mai sarebbe riuscito a placare la sua fame nonostante la sua migliore buona volontà e i suoi sforzi più eroici. A questo punto, messo alle strette dagli avvenimenti, ha davanti a sé 2 alternative: o far prevalere l’orgoglio (e quindi non riconoscere i suoi errori ed il suo fallimento e decidere di togliersi la vita; oppure far prevalere l’umiltà (ritornando dal padre suo, riconoscendo i propri errori, pentirsi del male fatto ed ammettere di meritare una giusta punizione).
Verso la casa del Padre
Questa volta la scelta che fa è quella giusta: mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi. Inizia così il cammino di ritorno verso la casa del padre. Ma qual’è il motivo che lo spinge a tornare a casa? Non il pentimento, ma la necessità di sfuggire a una sicura morte per fame; poi, forse il pentimento e la necessità di riparare le offese fatte al padre. Dobbiamo però apprezzare la sua perseveranza, segno di una volontà ferma nella decisione presa. Come infatti aveva fermamente voluto realizzare il suo progetto di vita in quel paese lontano, così, altrettanto fermamente decide di tornare sui suoi passi senza lasciarsi scoraggiare dal lungo cammino o da eventuali tentazioni che gli suggeriscono di fermarsi a metà strada. Possiamo immaginare che lungo la strada del ritorno abbia riflettuto a lungo sia sulle disgraziate esperienze passate che su ció che lo aspetta. Era partito pieno di belle speranze, sicuro di sè, convinto di sapere cosa bisognava fare per dare gusto e splendore alla sua vita, era partito rinunciando all’amore del padre suo e alla vita abbastanza tranquilla della casa paterna, convinto di riuscire a cavarsela da solo, ed ora doveva rendersi conto e ammettere che aveva sbagliato tutto, tutti i suoi sogni si erano dimostrati vani, tutti i suoi progetti erano stati ridotti in polvere; di tutto questo erano rimaste solo la miseria, il fallimento, l’umiliazione. Ed ora tornava per consegnarsi alla giustizia di suo padre, cosa sarebbe successo? Cosa poteva sperare per il resto dei suoi giorni? Il padre suo, come l’avrebbe accolto dopo che lui aveva sperperato tutte le sue sostanze, ma soprattutto aveva rinunciato a Lui e al suo amore? Eh Sì! Avrebbe potuto ritenersi fortunato se suo padre si fosse dimostrato disposto a trattarlo almeno come uno dei suoi servi.
Nei pressi della casa del Padre
Nel frattempo, anche se sporco, dimagrito e stanco, coi vestiti stracciati e a brandelli, la sua perseveranza lo ha portato in vista della casa paterna. Accadono a questo punto una serie di fatti sorprendenti che manderanno all’aria, ancora una volta, tutto ció che si era immaginato il povero ragazzo. Ad un certo punto intravede qualcuno che corre verso di lui; dall’aspetto sembra addirittura suo padre; probabilmente pensa: sarà un servo che viene a dirmi: “tuo padre è molto arrabbiato con te, è bene che non ti presenti subito da lui”. Quando invece si accorge che chi gli corre incontro è proprio suo padre, gli vengono le palpitazioni al cuore e pensa tra sé: sicuramente viene a punirmi, a caricarmi di botte per tutti i dispiaceri che gli ho dato. La sua sorpresa è invece grande quando vede che il padre gli si getta al collo e lo bacia. Un simile comportamento proprio non se lo aspettava, e comincia a balbettare: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami almeno come un tuo servo; ma il padre non gli lascia finire la frase preparata da tempo e gli dice: io ti devo trattare da servo? Tu sei mio figlio e sarai trattato da figlio. Poi ordina: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso e ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa. A questo punto, sorpreso e travolto dall’amore del padre, entra in un profondo silenzio e, pieno di confusione, lascia fare. E mentre gli altri fanno incomincia finalmente a conoscere chi è veramente il padre suo, si rende conto cosa ha combinato e come abbia potuto far soffrire, pugnalare e quasi far morire suo padre; e il suo peccato gli appare ancora più grande; si vede ricoperto da una misericordia e da un perdono che non merita eppure questa misericordia e questo perdono lo stanno riempendo di gioia e di felicità, in quel clima di festa che lui aveva cercato invano lontano dalla casa paterna.
La irrazionalitá della misericordia che si manifesta
C’è in tutto questo qualche cosa di sconvolgente, talmente sconvolgente che il figlio maggiore, di ritorno dai campi, ne rimane scandalizzato e protesta: non è giusto !!!. Non è giusto che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute sia trattato in questo modo. Non è giusto che io, che ti ho sempre servito fedelmente, non abbia avuto mai la possibilitá di far festa con i miei amici; se è per questo disgraziato che bisogna far festa, mi dispiace, ma io alla festa non ci vengo. Siamo qui di fronte ad un qualcosa di irrazionale: quando l’amore misericordioso del padre si esprime e manifesta tutta la sua tenerezza, produce strani effetti: viene accolto dall’uno e respinto dall’altro; le manifestazioni d’amore sono pericolose, possono essere fonte di gioia e di consolazione o possono generare crisi di rifiuto. E la cosa inconcepibile è che colui che aveva fatto la scelta giusta, che era rimasto nella casa del padre, che lo aveva servito per anni ed anni, lo ritroviamo alla fine con un cuore duro come la pietra, incapace entrare in sintonia con il cuore del padre e impossibilitato a prendere parte alla festa. Vediamo realizzarsi in questa parabola la profezia del Signore: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio (Mt 21, 31). Con questa profezia e questa parabola, ma anche in altre circostanze, il Signore sembra proclamare il privilegio ed il vantaggio dei peccatori rispetto ai giusti. Come mai? In che cosa consiste questo privilegio? Cercheremo di rispondere a questo interrogativo nel prossimo incontro quando rifletteremo sui rapporti fra il padre ed il figlio maggiore.
IL PADRE MISERICORDIOSO E IL FIGLIO MAGGIORE
(Seconda parte)
Luca 15, 1-32
Al termine del precedente incontro avevamo lasciato in sospeso la domanda: in che cosa consiste il privilegio dei peccatori rispetto ai giusti? Per cercare un po’ di luce proviamo a riflettere sulla vicenda del figlio maggiore. Così come suo fratello, anche lui riceve un bel giorno la sua parte di eredità ma, a differenza di lui, decide di rimanere nella casa paterna. Perché ha preso questa decisione? Probabilmente, quella felicità che suo fratello sperava di trovare altrove, lui sperava di trovarla nella casa del padre. E non aveva tutti i torti, suo padre era ricco, aveva molti servi che lavoravano per lui, ed anche lui con il suo lavoro contribuiva ad aumentare questa ricchezza; oltre ad essere ricco, il padre era anche saggio, giusto e magnanimo, ai servi dava infatti pane in abbondanza, ed aveva diviso l’eredità fra lui e suo fratello senza aver fatto torto a nessuno. Continuando a vivere nella casa paterna avrebbe beneficiato di una solida situazione economica che lo avrebbe tenuto al riparo da eventuali momenti difficili o da attacchi di avversari invidiosi. Fu così che, mentre suo fratello partiva per un paese lontano, lui decideva di ubbidire e servire nella casa paterna. Con il passare del tempo però, incomincia a rendersi conto che qualche cosa non sta andando secondo le sue previsioni, una certa insoddisfazione serpeggia nel suo cuore, il servizio e l’ubbidienza che rende al padre incominciano a pesargli, ma soprattutto, quello che più lo rattrista è che non riesce ad intravedere la possibilità di un momento di festa, sempre ubbidire e servire, servire e ubbidire, e la festa!? E la gioia!? Quando arrivano la festa e la gioia? Lui veramente, una soluzione ce l’ha in mente: se solo suo padre gli desse di tanto in tanto un capretto per far festa con i suoi amici! Allora sì la sua vita avrebbe gusto. Ma suo padre da questo orecchio sembra non sentire, e il figlio maggiore ha un forte presentimento che non accoglierebbe volentieri la sua richiesta. Si rende allora conto di non comprendere bene i comportamenti e i disegni di suo padre, così, un certo timore ed una certa tensione incominciano a sorgere in lui. Ha l’impressione che suo padre sia troppo duro e ingiusto nei suoi confronti, giunge anche a pensare che sono più fortunati i suoi coetanei che hanno un padre meno austero (una religione piú comoda e un Dio meno severo!) e che forse aveva ragione suo fratello, almeno lui può far festa quando vuole. La sua ubbidienza ed il suo servizio li compie allora sempre più di mala voglia, ciò che fa, lo fa per forza e per abitudine, sempre pensando alla festa con gli amici che gli è negata; così, il suo cuore tende ad indurirsi ed inaridirsi sempre più, anche se esteriormente non gli si può rimproverare nulla.
La grande ingiustizia
Il suo animo si trova più o meno in questo stato quando un giorno, di ritorno dal suo lavoro quotidiano, sente che in casa ci sono musica e danze. Quando gli dicono che è stata preparata una festa per il ritorno di suo fratello, il suo cuore incomincia a ribollire, si sente vittima di un’enorme ingiustizia e non vuole assolutamente entrare in casa. In questa occasione, il padre manifesta nuovamente la sua grande saggezza e bontà, esce infatti non per rimproverare la durezza di cuore di suo figlio, ma per pregarlo di entrare a prendere parte anche lui alla festa. Il figlio però, risponde alla sua bontà dando libero sfogo alla sua rabbia, ai suoi risentimenti e alla sua contrarietà per il trattamento ingiusto che viene riservato al fratello. Secondo il suo parere infatti, se c’era qualcuno che meritava una festa questo era lui, suo fratello meritava invece di essere trattato duramente; mentre invece la cosa incomprensibile era che lui si sentiva trattato duramente, mentre a suo fratello veniva riservata ogni benevolenza.
Domande imbarazzanti
E noi che pensiamo? Penso sia un errore schierarsi troppo presto dalla parte del fratello minore e del padre, senza prima cercare di affrontare i problemi che i rapporti fra il padre ed il primogenito sollevano. Perché quest’ultimo non dovrebbe arrabbiarsi? Perché suo padre non gli ha dato mai un capretto per far festa con i suoi amici? Che cosa pretendeva o che cosa si aspettava da lui?
Se ogni tanto gli avesse dato un capretto, i loro rapporti non sarebbero stati migliori? Se ha sbagliato, quando è avvenuto il suo errore? In che cosa è consistito? Poteva evitare di cadervi? Quale è in realtà il progetto del padre? Proviamo ad avventurarci nella ricerca di qualche risposta iniziando a riflettere sul momento critico in cui il figlio si rende conto che le cose non stanno andando secondo le sue aspettative. Le sue aspettative erano che il padre, considerando la sua ubbidienza ed il suo servizio, gli avrebbe concesso prima o poi un momento di festa con i suoi amici, ora questo non stava avvenendo, di qui il suo disagio e l’incrinatura dei rapporti con il padre. Conviene anche considerare che a questo punto la sua situazione è simile a quella di suo fratello nel paese lontano durante la carestia. Anche lui infatti, nonostante la sua eredità, nonostante l’ambiente favorevole in cui vive, nonostante il suo impegno, non riesce a risolvere il suo problema, non riesce ad ottenere quella festa a cui il suo cuore aspira, così, come suo fratello, si ritrova a soffrire la fame e la sete, fame e sete di felicità e di gioia. Ed anche per lui l’orgoglio e l’umiltà sono lì a suggerire come dovrà gestire il momento critico in cui è venuto a trovarsi. Che avrebbe dovuto fare? Visto che le sue idee e le sue aspettative non coincidevano con la realtà, rendendosi conto che nonostante il suo impegno non riusciva ad intravedere vie d’uscita, la cosa più semplice che gli rimaneva da fare era di riconoscere umilmente la sua impotenza, andare da suo padre, parlargli del suo problema ed accogliere le sue direttive. Evidentemente l’orgoglio gli ha impedito di adottare questa soluzione, ha preferito rimanere attaccato alle sue idee, gli costava troppo mettere in discussione le sue vedute, ed ammettere di non capirci più niente. Preferiva accusare segretamente il padre di durezza e di ingiustizia, magari pensando di essere se stesso più giusto e più saggio del Padre. Vediamo così che il primogenito, pur vivendo nella casa del padre, aveva in realtà il cuore molto lontano da lui, mentre suo fratello, pur essendo fisicamente lontano, pur avendo sbagliato tutto, aveva saputo trovare la strada che lo aveva infine condotto fra le braccia del padre.
Il privilegio dei peccatori
Potremmo a questo punto tentare una risposta alla domanda sul privilegio e sul vantaggio dei peccatori rispetto ai giusti. Conviene intanto fare questa osservazione: sia il percorso di un giusto, sia quello di un peccatore comportano dei vantaggi e dei pericoli; il più grave pericolo a cui va incontro un peccatore è la disperazione, quello a cui va incontro un giusto è l’orgoglio, sia la disperazione che l’orgoglio impediscono di ricorrere con fiducia alla comprensione, alla saggezza e all’amore del Padre. Abbiamo anche notato come entrambe le vie giungano prima o poi ad un punto morto, alla presa di coscienza di un fallimento o di un’impotenza. Ora, il vantaggio del peccatore è che il suo fallimento, riducendo in frantumi i suoi progetti e le sue illusioni, riduce anche in frantumi il suo orgoglio, l’umiltà trova così un terreno migliore per germogliare e orientare il suo cuore verso ad affidare il proprio fallimento e la propria miseria nelle mani esperte del padre. Ora, se il peccatore saprà sfruttare questo vantaggio, giungerà a beneficiare di un enorme privilegio, il privilegio di essere perdonato dal cuore misericordioso del padre; gli sarà dato un amore più grande proprio a causa del molto che gli verrà perdonato.
L’impossibile dialogo
Potremmo a questo punto domandarci qual era l’atteggiamento del padre verso il suo primogenito; perché ad esempio, vedendolo in difficoltà non gli ha offerto i suoi consigli o non ha cercato di dialogare? Penso che lo avrebbe fatto senz’altro se solo lo avesse potuto; per dialogare infatti bisogna trovare un cuore disposto al dialogo, allo stesso modo per dare consigli bisogna trovare un cuore disposto ad accoglierli. Ora, queste disposizioni erano venute meno a causa dell’orgoglio che ad un certo punto avevano preso il sopravvento nel figlio maggiore. Per comprendere un po’ la cosa potremmo pensare a certe persone che, pur invitate ed incoraggiate a fare certe cose, a fare il bene, ad impegnarsi nella liturgia e nel canto o nella Comunitá, si chiudono in se stesse, rimangono attaccate alle loro timidezze, alle loro paure, ai loro pensieri. Allora, un cuore che ama veramente non potrà che rispettare la loro libertà e rimanere in attesa di tempi migliori. Potremmo ancora pensare a certe persone che sbagliano in modo manifesto su molti punti; queste persone sono tuttavia così sicure di sè, così convinte di sapere come bisogna comportarsi in tutti i campi e in tutte le circostanze, sono inoltre così pronte ad offendersi e a risentirsi che è praticamente impossibile parlare con loro e suggerire qualsiasi consiglio, soprattutto se questi consigli tendono a mettere in discussione i loro punti di vista a cui sono attaccati. Così, al padre non rimaneva che aspettare. Il fatto, peró era che piú tempo passava piú il cuore del figlio maggiore si induriva e meno lui poteva intervenire. Chi o che cosa poteva tentare di rompere questa situazione? Bisognava aspettare qualche circostanza sconvolgente. Ed ecco che il ritorno del fratello viene a scombussolare tutto.
La misericordia e la durezza si affrontano in campo aperto
Questo ritorno è l’occasione in cui si manifestano chiaramente la durezza di cuore del primogenito da una parte e la misericordia del padre dall’altra. Tutto accade come se fosse giunto il giorno della resa dei conti, il giorno in cui durezza e misericordia dovevano affrontarsi in campo aperto per la battaglia decisiva. Vediamo dunque una prima manifestazione della misericordia del padre nel momento in cui il secondogenito, di ritorno col suo carico di umiliazione, di sofferenza e di fallimento, viene accolto con benevolenza; questo scatena però l’ira e l’indignazione del primogenito che si indurisce rifiutandosi di entrare in casa; questo dá tuttavia luogo a una seconda manifestazione della misericordia del padre il quale compie un gesto di estrema umiltà e benevolenza, esce infatti incontro al primogenito non per rimproverarlo, ma per mendicare da lui sentimenti di bontà e di comprensione verso suo fratello. Lui però non si lascia commuovere per così poco e risponde esprimendo, con durezza, tutta la sua rabbia e la sua disapprovazione. Incomincia esponendo la sua fedeltà e i suoi meriti: ecco che io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, passa poi a rimproverare il padre per la sua severità e ingiustizia: tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici; questa ingiustizia è secondo lui ancor più grave considerando il trattamento che è stato riservato a suo fratello. Fratello da cui vuole prendere le distanze e di cui si preoccupa di sottolineare aspramente le mancanze dicendo: ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. E ancora una volta, sorprendentemente, a questa durezza la misericordia del padre non risponde con la durezza ma con una bontà ancor maggiore; non rimprovera infatti quest’uomo dal cuore indurito ma lo chiama teneramente figlio (altre traduzioni hanno figlio mio) . Tenta poi di richiamargli alla mente due aspetti su cui aveva poco riflettuto, prosegue infatti dicendo: tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, come a ricordargli un grandissimo privilegio e un grandissimo vantaggio, privilegio e vantaggio di cui lui non si rende bene conto e non sa apprezzare. Infatti, quale privilegio e quale vantaggio se non ha avuto mai nemmeno un capretto per far festa con gli amici, eppure quel capretto avrebbe dato gusto alla sua vita, perché gli è stato negato? O ancora, quale privilegio essere stato sempre con il padre se questo ha significato per lui solo servizio e ubbidienza? Ingiustizia o privilegio? Ora, è possibile scorgere in questo stato di cose i segni di una durezza e di un’ingiustizia odiosi, come aveva fatto il primogenito, oppure scorgervi i segni di un grande privilegio come ci suggerisce la risposta del padre: basta fidarsi del Padre, avere pazienta e saper aspettare, sicuri che a suo tempo ogni cosa andrà al suo posto, ogni oscurità sarà chiarita, ogni debito sarà saldato ed il padre darà a tutti molto più di quanto ognuno avrà saputo aspettarsi e desiderare. Se non viene concesso il capretto per far festa con gli amici, è perché il padre vuole educare:
1) a desiderare un’altra festa, una festa in cui si godrà una pienezza ed una gioia che uno non riuscirebbe mai a desiderare se si fermasse a desiderare una festa e una gioia di minor valore e passeggera.
2) a capire che una festa in cui non sia presente anche il padre non può essere una vera festa e non può che lasciare l’amaro in bocca, ora, proprio questo errore stava compiendo il primogenito desiderando una festa in cui c’erano sì gli amici, ma non era invitato il padre suo.
3) a capire che ciò che il padre ha in mente è proprio la preparazione di una festa, una festa meravigliosa, la festa dell’amore. Se il padre ritarda il momento della felicitá e della festa lasciando il figlio a faticare nel suo servizio, è perché vuole riservargli un onore maggiore e una felicità più grande..
4) a capire cosa è un vero rapporto d’amore. Un aspetto essenziale in un rapporto d’amore è questo: se da un lato colui che ama vuole esprimere alla persona amata quanto è grande il suo amore, dall’altro ha anche la necessità di provare quanto sia grande anche l’amore della persona amata; e questo non può avvenire senza che ci sia un tempo in cui la persona amata sia lasciata in situazione di difficoltà, di fatica e di tentazione. Infatti, se la persona amata non incontrasse nessuna difficoltà, nessuna contrarietà, nessuna incertezza, ma godesse sempre di ogni consolazione e di ogni favore, non si potrebbe sapere quanto vale effettivamente il suo amore, e così non sarebbe possibile premiarla con il dono di un amore ancora più intimo, piú grande, piú profondo e più forte.
Ma c’è anche una seconda parte, nella risposta del padre, da analizzare. In questa seconda parte della risposta, il padre vuole richiamare alla mente del primogenito il fatto che lui non è l’unico figlio, ma ha anche un fratello nei confronti del quale dovrebbe avere sentimenti di amore e di comprensione. Il fatto poi che suo fratello abbia sbagliato, non lo libera dal dovere di continuare ad amarlo, quando poi lo vede tornare sui suoi passi pentito, tutti dovrebbero rallegrarsi e far festa per l’eccezionalità del fatto. Ma la durezza di cuore a cui è ormai giunto il primogenito non gli consente di entrare in sintonia con il cuore del padre e di prendere parte alla festa d’amore che è appena stata preparata; così, a forza di pensare alla festa con gli amici, appena la vera festa arriva si trova impossibilitato a parteciparvi. Inoltre mentre il padre soffriva e si preoccupava ogni giorno per la sorte di un figlio continuamente in pericolo di morte, lui pensava a far festa con gli amici. Invece avrebbe dimostrato di avere un cuore molto più nobile se avesse manifestato preoccupazione per la sorte del fratello condividendo almeno un po’ le ansie ed il dolore del padre suo. Avrebbe potuto anche pensare: se il padre si dimostra così buono e comprensivo nei confronti di questo figlio che ha sbagliato a lungo, lontano da lui, non lo sarà altrettanto buono e comprensivo con me che non ho mai abbandonato la sua casa? Ecco cosa il padre si aspettava dal figlio dopo i molti anni trascorsi insieme, si aspettava che fosse maturata in lui la ferma convinzione che lui, padre, non era ingiusto, e se trattava così il figlio che gli aveva dato solo preoccupazioni, cosa non avrebbe fatto per chi lo aveva sempre servito?
Poteva il primogenito evitare di indurirsi?
Certamente: avrebbe senz’altro potuto, se avesse deciso di avere confidenza nel padre e anche pazienza, anziché coltivare sentimenti di contestazione, di diffidenza e di rabbia. In che modo avrebbe potuto fare la scelta giusta? Usando la sua ragione da una parte e osservando il comportamento del padre suo dall’altra. Ora, se suo padre era uno che in casa aveva voluto una certa disciplina, se aveva deciso che tutti dovessero lavorare, era però anche intelligente, giusto, generoso e buono; se non fosse stato intelligente la sua casa sarebbe andata in rovina, invece lui poteva constatare che si stava arricchendo sempre più; se non fosse stato giusto non avrebbe diviso con giustizia i beni fra lui e suo fratello; se non fosse stato giusto e magnanimo non avrebbe dato pane in abbondanza ai suoi servi; ma soprattutto il padre era buono, egli vedeva che ogni giorni il padre si preoccupava per il figlio lontano, egli vedeva che ogni giorno il padre saliva sul terrazzo per guardare in lontananza nella speranza di scorgere il ritorno del fratello; questo voleva dirfe che nonostante tutto gli voleva ancora bene, gli importava di lui, non lo dimenticava e desiderava rivederlo. Ora, se suo padre amava così suo fratello, non c’era ragione perché non amasse altrettanto anche lui. Ma a lui toccava servire e ubbidire; se avesse ragionato un po’, avrebbe capito che non avrebbe passato tutta la vita a servire e ad ubbidire; avrebbe capito che non avrebbe passato tutta la vita a d accumulare ricchezza; se avesse ragionato un po’ avrebbe previsto che sarebbe arrivato un giorno in cui avrebbe finito di faticare ed avrebbe incominciato a godere insieme al padre di tutti i beni accumulati nel tempo. Da queste considerazioni possiamo ricavare che si corre un gran pericolo quando troppo in fretta si crede di aver capito come stanno le cose di Dio; infatti, dietro le apparenze, sempre si nascondono un progetto ed una bellezza a cui si può arrivare solo riflettendo, fidandosi e perseverando ricerca della verità. In questa ricerca ci è di esempio e di incoraggiamento Maria, la Madre di Gesú, la quale si è trovata più volte a non capire certi comportamenti e certe parole di Gesù, tuttavia conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore (Lc 2, 19; 51), aspettando poi il giorno in cui tutto si sarebbe chiarificato. La parabola termina lasciandoci incerti su come finisce la battaglia fra la misericordia del padre e la durezza di cuore del primogenito. Può essere questo un invito a riflettere sul fatto che la salvezza, l’ingresso alla festa eterna, non è qualche cosa di automaticamente concesso a tutti, ma dipende dalla risposta che ognuno darà ad una misericordia che esce in campo aperto e si manifesta. Non sappiamo la risposta che ha dato il primogenito. Potrebbe anche aver detto: a queste condizioni io non ci sto, questa volta sono io che prendo quanto mi è dovuto e me ne vado, condannandosi così ad una infelicità senza rimedio. Oppure potrebbe aver infine ceduto alla bontà del padre rinunciando alle sue idee ed alle sue esigenze di giustizia, per rivestirsi anche lui di amore. Alla festa dell’amore non si può entrare se non si ha un cuore capace di amare.
IL PADRE MISERICORDIOSO E NOI
(Terza parte)
Lc 15, 11-32
Giunti a questo punto rimane il compito di andare in cerca dei paragoni fra la nostra storia e quella che il Signore ci ha raccontato.
1) Potremmo intanto cominciare a dire che ognuno di noi, per il fatto di esistere, è coinvolto in qualche modo in un rapporto d’amore con il Padre che ci ha creati.
2) Ognuno di noi aspira inoltre alla gioia, alla festa, ad una vita più piena e più intensa.
3) Il Padre però, non ci dá questi beni sin dall’inizio, ma vuole che siano il frutto di una nostra conquista. A questo fine concede ad ognuno un certo “patrimonio” e un certo numero di capacitá, lasciandoci poi liberi di utilizzarli nel modo che riteniamo più opportuno.
Questo patrimonio è costituito
1) innanzitutto dal dono dell’esistenza,
2) dal dono dell’intelligenza,
3) dal dono della libertà, da una certa capacità di distinguere il bene dal male,
4) dal dono della volontá
5) dal tempo in cui ci è concesso di vivere per esercitare queste facoltà
6) da un certo sentimento dell’esistenza di Dio e della sua maestà.
Con questi beni a disposizione ognuno ha poi la possibilità di scegliere due possibili strade:
1) o impiegare i doni ricevuti servendo Dio, cioè costruire la sua vita secondo i suoi comandamenti e la sua volontá, confidando di ricevere a suo tempo una giusta ricompensa,
2) oppure decidere di liberarsi completamente dal suo servizio per tentare di costruire da solo la propria vita e la propria felicità.
Quanti scelgono questa seconda via assomigliano al figlio più giovane della parabola ed andranno incontro alle sue stesse disavventure. Tra i motivi che avevano spinto il figlio piú giovane ad abbandonare la casa paterna ne avevamo individuato principalmente due:
1) un certo disagio ed una certa insofferenza verso un comportamento di servizio e di ubbidienza che c’era nella casa del padre,
2) e le affascinanti prospettive che il mondo esterno offriva.
Allo stesso modo, succede a molti: essi rispettano per un certo tempo la volontà e le leggi di Dio, tuttavia essi non sono molto convinti, magari condizionati dell’ambiente che li circonda. Può quindi accadere che col tempo incomincino a manifestarsi sentimenti di svogliatezza e di insofferenza insieme a d una voglia di liberarsi appena possibile dal peso religioso, rappresentato dalle regole, dai divieti, dai riti, dalle ricorrenze, dagli obblighi verso gli uni e verso gli altri.
L’altro fattore che contribuisce a far maturare la decisione di abbandonare Dio e la sua legge, è la bellezza, la vitalità e i piaceri che la vita mondana sembra promettere.
Così, la prospettiva di gestire il tempo a proprio piacimento, di liberarsi dagli obblighi e dai divieti per concedersi ogni piacere, ogni divertimento ed ogni esperienza, esercita una forte pressione e si finisce per abbandonare ogni pratica religiosa. Il fatto che a partire sia proprio il figlio più giovane rispecchia bene quanto ognuno può constatare, ossia che l’abbandono della pratica religiosa si verifica per molti proprio nel periodo della giovinezza. Questo abbandono è in parte colpevole e in parte no. Il giovane non è colpevole in quanto alla sua etá si ha poca esperienza della vita, si è molto instabili, ci si lascia facilmente abbagliare dalle false luci, non si riescono a calcolare bene tutte le conseguenze delle proprie decisioni, non si conoscono profondamente le proprie forze e le proprie debolezze, si crede troppo presto di aver capito tutto… Il giovane, invece, ha la sua parte di colpevolezza in quanto rifiuta di ascoltare e di seguire i consigli di chi è piú maturo ed adulto; segue, senza ragionarci molto, i richiami di coloro che vivono come se Dio non ci fosse; pur conoscendo poco sia Dio, la Bibbia e il progetto di Dio sull’umanitá, non fa niente per approfondire la conoscenza sia dell’uno che dell’altro. Se la pratica religiosa sembra noiosa, repressiva, limitativa della libertà, perché non parlarne, informarsi e cercare di sentire e capire anche i punti di vista di Dio? Non si fa questo, perché c’è proprio la volontà di tagliare ogni rapporto con Dio che ci ha dato tutto e non ci chiede che di aver fiducia in Lui.
L’infinito rispetto per la libertà dell’uomo
La parabola mostra poi come Dio rispetti infinitamente la libertà dell’uomo; non si oppone infatti alla decisione del figlio di partire per un paese lontano, questo perché un cuore che ama vuole assolutamente rispettare la libertà della persona amata, è in questo rispetto infatti, la grandezza e la bellezza di ogni autentico rapporto d’amore. Noi che non sappiamo amare invece, abbiamo una forte tendenza ad imporre o ad esercitare forti pressioni per far accettare le nostre idee o per reclamare le nostre esigenze. Certo, rispettare la libertà dell’altro vuol dire anche rischiare che l’altro vada contro i nostri interessi e desideri; vuol dire accettare anche il rifiuto, l’incomprensione e le relative sofferenze; ma è un prezzo che dobbiamo accettare di pagare costruire dei rapporti d’amore autentici e belli, gli unici che possono saziare e rallegrare il nostro cuore. A che serve un amore imposto? Serve solo a far sí che l’altro ci ama passivamente, di malavoglia. E che gusto c’è in questo tipo di amore?
Nel paese della libertà
Il figlio dunque, esercitando il suo diritto di uomo libero, parte per un paese lontano e, come abbiamo osservato, più si allontana, più sembra respirare liberamente, più la sua vita sembra allargarsi e fiorire.
Le cose vanno un po’ diversamente nel cuore del Padre, e i padri e le madri possono sperimentarlo quando vedono i loro giovani figli allontanarsi da loro, evitarli, scansarli, fare di testa propria: cominciano a preoccuparsi, prevedendo le disavventure e i guai a cui andranno incontro. In un primo tempo però, quanti abbandonano Dio non incontrano affatto sofferenze, anzi, sembra che tutto proceda per il verso giusto, fanno quello che vogliono, hanno le relazioni che vogliono, si concedono i divertimenti e le esperienze più eccitanti, vivono al passo con i tempi, liberi, senza complessi, senza scrupoli; se poi sopraggiungono difficoltà od inconvenienti, lasciando da parte gli scrupoli riescono sempre a trovare un modo per aggiustare le cose. Ma la parabola e l’esperienza insegnano che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi bisogna fare i conti con la realtà, ossia con i misteri nascosti nella vita e nella realtá; il più delle volte infatti, la vita e la realtà non è come ce la immaginiamo noi.
Il tempo della crisi
Ed ecco che ad un certo punto le cose cambiano e si entra in un tempo di crisi e di carestia. La prima sorpresa di questa crisi è scoprire di aver speso tutto e di non avere più risorse; si è provato tutto e non si sa più che esperienza fare per dare gusto e senso alla propria vita; ed anche se si possiedono tutti i beni di questo mondo l’anima si ritrova depressa ed infelice. La seconda sorpresa è poi questa: pur essendo esaurite le risorse, non si è tuttavia esaurito il desiderio, il desiderio di felicità e di senso per la propria vita. È a questo punto che si incomincia ad soffrire la fame e la sete, fame e sete per qualche cosa di nuovo e di diverso a cui non si sa dare un nome, fame e sete per una felicità a lungo inseguita ma mai raggiunta. Il Signore dice inoltre che in quel paese venne una grande carestia, che è come dire: la fame e la sete facevano soffrire tutti gli abitanti di quel lontano paese. Nonostante le apparenze infatti, lontani da Dio, tutti si ritrovano prima o poi a soffrire il disagio per il vuoto della propria esistenza e per la mancanza di vere soddisfazioni e gioie, che è possibile trovare solo nella casa di Dio. Può tuttavia accadere che non sapendo più dove sbattere la testa, si cerchi comunque aiuto presso qualche abitante di quella regione. Il risultato è però piuttosto umiliante e deludente, la soluzione che viene proposta è infatti quella di chi ti dice: se vuoi toglierti la fame, vai a pascolare i porci. Coloro che vivono lontano da Dio, infatti, non vedono soluzioni se non nella parte fisica, materiale o animale dell’uomo, perciò quello che riescono a proporre non è il massimo della nobiltà e dell’eleganza, non è una vera soluzione, non riesce a risolvere un gran che; ed il figlio, nonostante i suoi sforzi, continua ad aver fame. È questa la situazione di molti che, essendo caduti per vari motivi in una crisi profonda e trovandosi in gravi necessità, vagano di qua e di là in cerca di qualcuno che li aiuti, senza però trovare chi riesca a risolvere veramente il loro problema. Così c’è chi va in cerca di maghi o imbroglioni vari; c’è chi si affida a uno specialista famoso, poi lo cambia e prova con un altro, poi prova con una terapia di gruppo e così via. Altri si affidano ai consigli di amici e conoscenti tra i quali c’è sempre chi sa consigliare una bella vacanza, un bel viaggio, o magari di mangiare di più, di divertirsi di più, o di non prendersela tanto, in fondo, non bisogna pretendere troppo dalla vita. Tutti questi tentativi, o altri simili, hanno qualcosa in comune, quella di tentare di risolvere con mezzi naturali o umani un problema la cui soluzione è di ordine soprannaturale. Ci si può intestardire fin che si vuole, ciò che Dio solo può risolvere non lo possono risolvere gli uomini. Forse proprio questo aspetto vuole sottolineare la parabola quando dice che il figlio avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava, e di conseguenza la fame rimaneva. Da certe situazioni infatti, per quanto ci si dia da fare, nonostante gli sforzi più grandi, con le sole risorse umane non c’è verso di uscire. Quanto detto vale anche per coloro che, trovandosi in gravi difficoltà e necessità, sono tentati di risolvere i loro problemi ricorrendo a mezzi decisamente illeciti come il ricorso ad imbrogli, furti, associazioni criminali, guaritori, maghi, cartomanti…Se decidono cosí, cadranno dalla padella nella brace con il rischio di compromettere irrimediabilmente la loro situazione.
La crisi come occasione favorevole
La parabola mostra però come da una situazione di disagio estremo e di fallimento totale sia possibile iniziare un diverso e migliore cammino. Il figlio infatti rientrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza… Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò:… ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Questo ci dice come le situazioni più disperate e senza vie di uscita, possano costituire un’occasione favorevole per mettere giudizio; esso consiste nella decisione di voler riallacciare i rapporti con Dio. Succede spesso infatti che proprio quando si tocca il fondo, quando uno non ce la fa più, quando si tocca con mano l’insufficienza e l’inefficacia di ogni soluzione umana, si faccia strada la decisione di chiedere in modo esplicito l’aiuto di Dio, e chiedere questo aiuto è già iniziare il cammino di ritorno verso la casa del Padre che si era abbandonata. Questa decisione è poi anche favorita dal confronto fra l’infelice situazione in cui uno si trova e i salariati della casa del padre i quali hanno pane in abbondanza. Questi salariati sono i cristiani gioiosi e felici che vivono secondo la volontá di Dio. Deciso dunque a ritornare dal Padre per sfuggire ad una sicura morte per fame, nel figlio si fa anche strada la consapevolezza di aver peccato contro il Cielo e contro di lui, ossia di aver ferito con i suoi comportamenti il cuore del Padre che lo amava ed è per questo disposto a subire una severa punizione, ossia di venir trattato non più come figlio ma come servo.
Le conseguenze dolorose del peccato
L’espressione usata dal figlio: ho peccato contro il Cielo e contro di te, ci invita a riflettere sulle ripercussioni del peccato nei confronti di Dio e nei confronti dei fratelli. Quando noi non diamo a Dio il culto, l’onore, l’adorazione che gli sono dovuti, quando non pensiamo a Lui con affetto, quando non cerchiamo di crescere nella sua conoscenza e nel suo amore, quando non gli rendiamo grazie e, peggio ancora, quando gli voltiamo le spalle, dovrebbe essere abbastanza chiaro che lo offendiamo nel suo amore, ossia che pecchiamo contro di Lui; ma pecchiamo sempre contro di Lui anche quando manchiamo di carità verso qualsiasi nostro fratello, perché il dovere di amare gli altri è un comandamento di Dio e, quindi, se lo trascuriamo e ce lo mettiamo sotto i piedi ci mettiamo in aperto contrasto con la sua volontà; ma soprattutto perché quel padre, quella sorella, quell’amico, quello sconosciuto che noi offendiamo, sono infinitamente amati da Dio e l’offesa fatta ad uno qualsiasi dei suoi figli ha una ripercussione dolorosa anche nel suo cuore. È come quando una madre vede suo figlio subire una qualunque offesa, il suo cuore non può non partecipare alla sua pena e non puó non sentirsi offesa. L’ultima parte del proposito del figlio manifesta la sua disponibilità a subire un giusto castigo in riparazione alle offese recate a Dio e al padre suo. Ogni autentica conversione ed ogni autentico pentimento devono essere infatti caratterizzati dal desiderio di rimediare in qualche modo al male che si è fatto agli altri con i propri comportamenti, se mancasse questo desiderio sarebbe segno che non c’è nessun pentimento o che il pentimento non è autentico, e quindi non ci potrebbero essere né perdono, né vera riconciliazione.
L’esperienza della misericordia
Ecco allora la sorprendente esperienza che attende coloro che, carichi del loro fallimento, della loro impotenza e del loro peccato, giungono infine nei pressi della casa del Padre. Li attende l’esperienza di una dolcezza, di una misericordia e di un perdono al di la di ogni loro aspettativa; il Padre infatti gli si gettò al collo e lo baciò. È questo un invito a non scoraggiarci se Dio non risponde subito alla nostra richiesta di aiuto. Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa. Ma perché tanta festa? Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Tanto serio e tanto grave è il pericolo a cui va incontro chi si allontana da Dio, il pericolo di una morte. E per Dio, la vera morte è la perdizione eterna. Allora, quando come per miracolo uno sfugge ad un simile pericolo, come non rallegrarsi, come non far festa? L’amore del Padre che si sperimenta è poi tanto grande e tanto sorprendente che uno stenta quasi a credere di essere oggetto di tanta benevolenza; come è possibile che questo capiti ad un peccatore come me? A uno che ha sbagliato tutto, a uno che non sa più dove sbattere la testa, a uno che si rende conto di aver fatto soffrire gli altri, a uno che per tanto tempo e per tante volte ha trasgredito i comandamenti di Dio? Allora non rimane che abbandonarsi stupiti e riconoscenti alle iniziative del Padre.
Processo di rinnovamento
Queste iniziative sono fatte per rimettere a nuovo il figlio perduto, rendendolo degno di presentarsi onorevolmente alla festa che si sta preparando per lui. La prima fase di questo rinnovamento consiste nell’essere rivestiti con il vestito nuovo, ma per far questo è ovvio che prima bisogna lasciarsi togliere il vestito vecchio, poi venir lavati, rivestiti e quindi profumati. Che significa? Quando ci si allontana da Dio e si vive a lungo in un paese straniero, succede che a poco a poco uno aderisca ai modi di pensare e di agire degli abitanti di quel paese, così, come l’abito riveste il proprio corpo e vi aderisce, allo stesso modo i pensieri ed i comportamenti di coloro che vivono senza Dio rivestono ed impregnano intimamente quanti hanno deciso di vivere in mezzo a loro. Per poter entrare nella casa del Padre, è però evidente che bisogna venir rivestiti con un altro abito, bisogna cioè aderire ai pensieri di Dio. La prima cosa da fare è dunque quella di spogliarsi dell’abito vecchio e logoro acquistato in terra straniera; questo equivale a rinnegare la mentalità del mondo, i suoi modi di giudicare, di agire, la sua scala di valori; conviene però notare che questa operazione è compiuta mediante la collaborazione dei servi, dice infatti il Padre: portate qui il vestito più bello e rivestitelo. Questo vuol dire che non è possibile spogliarsi della mentalità del mondo da soli, ma a questo scopo è indispensabile l’aiuto dei servi, ossia dei cristiani i quali, con il loro esempio, con la loro parola e con le loro preghiere, aiutano chi ritorna a Dio ad abbandonare i pensieri, i comportamenti e le abitudini incompatibili con i pensieri ed i modi di Dio, ossia con le esigenze dell’amore. Proviamo a fare qualche esempio. Quando uno decide di non vivere più come se Dio non ci fosse, è come se si spogliasse di un abito vecchio, e la cosa, anche per l’aiuto dei fratelli, può essere considerata relativamente facile, ma quando si tratta di rinunciare alla propria volontà o a considerare il proprio io al centro del mondo, quando si tratta di rinunciare alla superbia, all’invidia, a certi punti di vista ai quali si è molto legati, alla malevolenza o all’antipatia verso persone che stanno particolarmente sui nervi, la cosa diventa un pochino più difficile, proprio perché queste impurità aderiscono in modo più intimo alla nostra anima: per questo bisogna lavarsi e profumarsi. Quando poi chi ritorna a Dio incomincia a mettere in pratica i comandamenti fondamentali dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, è come se si rivestisse di un abito nuovo, dell’abito che gli consentirà di non sfigurare nella casa del Padre dove l’unica legge è quella dell’amore e dove non può entrare chi non sa muoversi in armonia con le esigenze dell’amore. Il profumo poi è la figura di ogni atto virtuoso o di ogni atto di bontà nel momento in cui diffonde sollievo e consolazione in mezzo ai fratelli. A questo proposito San Paolo si rallegra che i cristiani, partecipando al trionfo di Cristo, diffondono il profumo della sua conoscenza nel mondo intero (2Cor 2,14). Dopo il vestito, al figlio viene infilato l’anello. Gli viene cioè restituita la dignità di figlio che aveva perduta quando si era allontanato dalla casa del Padre e vivendo come un orfano in un paese straniero. Ma l’anello è anche il segno dell’amore con il quale il padre vuole legare indissolubilmente a sé suo figlio, e questo anello glielo può dare proprio perché ha accettato di rivestirsi dell’abito dell’amore. L’ultimo atto del rinnovamento consiste nell’indossare un paio di sandali nuovi. Un possibile significato potrebbe essere questo: come abbiamo visto, lontano dalla casa del Padre, il figlio si era trovato ad un certo punto a non saper più dove sbattere la testa, a non avere più prospettive, la sua vita non aveva più alcuna meta, ed è come se non avesse più saputo dove dirigere i suoi passi; ora, i sandali nuovi è come se mettessero di nuovo il figlio in grado di camminare speditamente, il Padre cioè apre al figlio una nuova prospettiva, gli indica nuovamente una meta verso la quale dirigere i suoi passi e, donandogli i sandali, gli fornisce anche i mezzi per raggiungerla. Questa meta è poi la festa con la musica e le danze che si sta preparando nella casa del padre, festa in cui si mangerà il vitello grasso e tutti sono invitati a gioire e rallegrarsi. La festa sta ad indicare quella pienezza di vita e di felicità che il figlio aveva a lungo cercato ma che mai era riuscito a trovare, ed ora scopre che avrebbe dovuto cercare questi beni proprio in quella casa da cui aveva voluto allontanarsi. Così, a tutti coloro che ritornano a Dio è dato sapere dov’è il luogo della gioia e della festa, la loro vita non è più senza scopo e senza senso, con l’aiuto e la compagnia dei fratelli possono ormai camminare verso quella casa dove sanno di trovare un giorno la loro beatitudine eterna.
b) PARABOLA DEI TALENTI
E PARABOLA DEI CHIAMATI A LAVORARE NELLA VIGNA
1.
PARABOLA DEI TALENTI (Mt. 24, 14-30) La parabola dei talenti si trova nel capitolo 24, 14-30 del Vangelo secondo Matteo. Essa ha un suo parallelo nel Vangelo di Luca, al capitolo 19, 11-27 (leggere tutte e due le parabole).
Nella parabola si narra di un personaggio che parte per un viaggio lungo (senza specificare quanto tempo sia lungo), dopo aver affidato i suoi beni ai servi.
1) La consegna dei beni
Il primo versetto chiave è il 14: “Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni”. Questo uomo che parte per un viaggio, e che consegna ai suoi servi i suoi beni per farli fruttare, rappresenta Dio. Il che significa che non c’è nessuna persona umana che possieda veramente qualcosa: tutto ci è stato dato da Dio! Niente è di nostra proprietà! Ma non è che ci è stato dato e poi di ció che abbiamo ricevuto possiamo fare quello che volgiamo, no! Quello che ci è stato dato è per farlo fruttare. Questa idea non entra facilmente nella nostra mentalità, neppure come cristiani. Noi ci riteniamo i “padroni” della nostra vita e a volte diciamo “la vita é mia e ne faccio quello che voglio”; tanto è vero che al mattino ci alziamo e diamo per scontato che ciò che abbiamo, a partire dal respiro, ci sia dovuto; non ci meravigliamo del fatto che respiriamo, ci muoviamo, abbiamo la percezione del mondo, l’intelligenza, la vita che palpita in noi: non pensiamo minimamente che tutto ció è un bene continuo di Dio. Dio, attraverso il v. 14, vuole aprirci gli occhi, dicendoci che tutto quello che abbiamo è un suo “bene” (non “dono”), e che il vero proprietario è Lui. Se accettiamo tutto questo, noi guarderemo alla nostra vita con occhi di meraviglia, di gioia e di riconoscenza, perché siamo oggetto di un Amore generoso, che dá dei beni a tutti, a chi merita e anche a chi non merita. Se invece non accettiamo che noi, ciascuno di noi, è tutto un “bene” tutto intero, che ogni momento della vita è un “bene” ininterrotto da parte di Dio, noi non solo saremo inquieti e scontenti, ma non avremo neppure nel nostro cuore l’atteggiamento della gratitudine. In ogni caso, al suo ritorno il Padrone chiede ai suoi servi di rendere ragione del modo in cui hanno amministrato i suoi averi, i suoi “beni”, esprimendo alla fine, su ciascuno di essi, un giudizio. La Parabola, come si vede dall’insieme del racconto, riguarda il giudizio particolare, cioè il giudizio a cui sará sottoposto ciascun essere umano quando si presenterà davanti a Dio, immediatamente dopo la morte.
Nel versetto 14 ci viene detto in modo chiaro come interpretare la vita presente, in relazione al giudizio futuro. Il giudizio pronunciato nell’aldilà, subito dopo la nostra morte, non sará altro che la conseguenza di come noi abbiamo “trafficato” i “beni” di Dio nell’aldiqua. Infatti, finché viviamo nel corpo abbiamo tempo e possibilità di scegliere, di decidere, di progredire, di migliorare o anche di peggiorare; con la morte, però, si chiude il tempo, si lascia il corpo e ognuno rimane fissato o bloccato nello stato di sviluppo del suo spirito personale a cui è giunto nel momento in cui muore.
La Parabola ci suggerisce di valorizzare il tempo che abbiamo a disposizione perché, una volta concluso, non è più possibile un ulteriore cambiamento.
(Subito dopo (Mt.25, 31-46) Matteo espone un’altra parabola, che peró parla del giudizio finale. Il Giudizio finale è un giudizio pubblico: ognuno personalmente é giá stato giudicato, per cui esso non riserverà nessuna sorpresa su noi stessi; per gli altri sicuramente sì, perché tante persone che noi riteniamo in difetto davanti a Dio, in base a ciò che vediamo esteriormente, magari le troveremo più in alto di noi nella gloria di Dio. Ma per noi stessi non ci potrà essere alcuna sorpresa, perché ciascuno di noi sa bene che direzione ha preso la sua vita).
2) La partenza del padrone
Nella parabola si dice che, dopo la consegna dei beni, il padrone parte. In realtà, soprattutto il cristiano davanti agli avvenimenti e davanti alla sua vita ha l’impressione che Dio (il padrone) gli avesse consegnato delle cose e degli impegni e poi fosse uscito di scena.
Molti, senza l’aiuto della fede, pensano che Dio sia partito per un viaggio e che non sia qui con noi, oppure che sia uno spettatore distaccato delle tragedie e dei drammi che succedono nel mondo e nella vita della gente. Il v. 14, dicendo: “Un uomo che partendo per un viaggio”, ci dá l’occasione di avere questa impressione. Ma non è cosí. Dio con la sua presenza riempie tutto l’universo, è in tutto e in tutti, in tutto ció che esiste e in tutto ció che vive: Lui è l’ESISTENZA stessa, Lui è la VITA stessa.3) La MODALITÁ della consegna dei beni
Nel v. 15 si descrive il modo come il padrone distribuisce i suoi beni: “A uno diede cinque talenti (500 monete d’oro), a un altro due talenti (200 monete d’oro), a un altro un talento (100 monete d’oro), a ciascuno secondo la sua capacità…”. Questo versetto puó suscitare in noi alcune domande: perché Dio non dà a tutti gli stessi beni? Alcuni sono arricchiti di più e altri di meno? Bisogna essere dalla parte del servo che ha ricevuto un solo talento, dal momento che, rispetto agli altri, è stato penalizzato? Chi si sentirà di criticarlo e di condannarlo per il fatto di aver sotterrato un “bene” così poco generoso? Prima di esprimere valutazioni che sono il frutto di istintive emozioni, bisogna studiare il racconto in modo piú approfondito. Dio dá i suoi beni, liberamente, secondo la sua volontà a tutti, ma non chiede a tutti gli stessi frutti! Ciascuno di noi, quando vive con la coscienza sincera illuminata dalla fede, si deve sentire come un servo che deve amministrare soltanto i beni che ha ricevuto lui (cioè deve rendere conto al padrone soltanto di quei beni che il padrone ha dato a lui), non i beni degli altri. Invece succede che molti di noi cominciamo a guardarci intorno per vedere che cosa Dio abbia dato agli altri; e ci facciamo l’idea che siccome Dio ha dato di piú agli altri, ami di piú gli altri e di meno noi stessi. In questo processo di confronto con gli altri, noi facciamo un errore gravissimo: quello di pensare: “Poverino, questo servo ha ricevuto un solo talento, mentre gli altri sono stati favoriti più di lui”.
Questa osservazione, la facciamo spesso anche nella vita, confrontando e giudicando, dal nostro punto di vista, il modo con cui Dio distribuisce le sue ricchezze, ossia le capacitá agli uomini.
Prima di dire che il servo di un solo talento abbia ricevuto poco, dobbiamo chiederci quanto valga un talento e che cosa si poteva comprare in quel tempo con 1 talento (100 monete d’oro).
Al tempo di Gesú, 1 talento (100 monete d’oro) valeva seimila denari (circa 400.000 Euro). Per capire la proporzione, basta pensare che un soldato romano aveva uno stipendio di trenta denari al mese (poco meno di 2.000 Euro). Quanto avrebbe dovuto lavorare per guadagnare un talento? Circa 17 anni. Comprendiamo allora che questa somma è piuttosto grossa, anche se è la più piccola somma menzionata nella distribuzione dei beni del padrone ai suoi servi. Un talento è una somma da investimento, un capitale adatto a chi voglia fare l’imprenditore. Fuori dalla metafora: i “beni” di Dio non sono mai piccoli, hanno sempre uno valore enorme che possono sempre moltiplicarsi, perché sono dati in previsione di un “investimento”.
Il Dio insegnato da Gesù Cristo, è un Padre che non é disposto a darci dei doni “completi”; Egli ci offre piuttosto come dei semi e si aspetta che noi li facciamo sviluppare. C’è un modo di dire che ripetiamo spesso: Dio ti dá le noci e lo schiaccianoci, peró le noci le devi schiacciare tu! Non è cosí? Il problema non è allora cosa ho ricevuto, se molto o poco, bensì fino a che punto io “investito” i “beni” che ho ricevuto. A questo punto si può confrontare con il testo di Luca al capitolo 19, 11-27.
LEGGERE LA PARABOLA DI LUCA (19, 11-27)
La parabola di Luca, come si è vista, quasi uguale in tutte le parti, è diversa solo in un punto, cioé, nella distribuzione dei “beni” da parte del padrone. Luca infatti dice che il padrone dà a tutti “la stessa somma”: una mina (circa 6.500 Euro). Da ciascuno, peró, il padrone si attende i risultati dell’investimento.
In questo modo, Luca vuole porre l’accento sul fatto che Dio non è ingiusto con nessuno nel distribuire i suoi “beni”. Nella parabola raccontata da Luca, la stessa somma ricevuta ugualmente da tutti, viene investita e aumentata in maniere diverse da ciascuno: c’è chi a partire da una mina ne guadagna cinque, c’è chi, investendo la medesima somma, ne guadagna dieci. In altre parole: anche nell’ipotesi che Dio desse a tutti gli stessi “beni”, rimarrebbe la verità che pur essendo tutti figli suoi, pur essendo tutti uguali davanti a lui, dalla diversità dei nostri frutti, dalla diversitá del nostro impegno nel trafficare i “beni” ricevuti, noi stessi, suoi figli, ci differenziano inevitabilmente gli uni dagli altri lungo l’arco della nostra vita. Matteo, peró è piú realista nel suo racconto e aggiunge un particolare che però Luca nel suo racconto non ha: e cioè che la distribuzione da parte del padrone è diversa perché ciascun uomo ha una diversa capacità (che dipende dai diversi caratteri ereditari, come spiega la scienza oggi): “A ciascuno secondo la sua capacità”.
La diversità di trattamento descritta da Matteo bisogna capirla in questi termini: i “beni” che riceviamo da Dio sono diversi, perché ciascuno di noi ha un ruolo diverso e irripetibile, stabilito da Dio prima della nostra nascita, e secondo questo ruolo, noi abbiamo ricevuto dei “beni” corrispondenti. Sarà poi il nostro impegno che ci differenzierà davanti a Dio. Puó succedere che una persona che ha poche capacità naturali diventa piú “santo”, davanti a Dio di uno che aveva piú capacità fisiche o mentali o di carattere.
Nessuna ingiustizia da parte di Dio nella distribuzione dei “beni”:
a ciascuno è dato ciò che davvero gli serve; e poiché ciascuno ha una missione diversa da realizzare in questo mondo, ne consegue che sono diversi anche i doni necessari a tale realizzazione.Perché qualcuno non sviluppa i “beni”?
La parabola fa una differenza tra coloro che sviluppano questi talenti e colui che lo sotterra. A questo proposito dobbiamo osservare alcune cose. C’è intanto un motivo, riportata al v. 25, perché quel tale che ha ricevuto un talento, non lo “traffica”. Si tratta di una frase messa sulla bocca stessa del servo fannullone, e perciò vera, in quanto affermata direttamente dal personaggio in questione. Il servo difende la sua condotta e la giustifica: “Per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo”. Questo versetto è di grande importanza nell’insegnamento della parabola, perché ci indica la causa che certe volte ci potrebbe bloccare nello sviluppo pieno di tutti i “beni” che Dio ci ha dato: la paura. Ricevere da Dio dei “beni”, significa servire gli altri in proporzione a quello che abbiamo ricevuto. Come è accaduto al servo della parabola, possono entrare nella nostra vita una serie di paralisi che hanno come unica radice la paura: la paura di essere giudicati, la paura di essere fraintesi, la paura di quello che dirá la gente su di noi, la paura che il nostro servizio non sia accettato, o sia giudicato come un mettersi in mostra, la paura di non farcela, la paura di sbagliare, la paura di non essere capace (che certe volte è la stessa cosa che la “pigrizia”. Queste paure paralizzano la persona e la portano a sotterrare i “beni” di Dio, che invece ci sono stati dati per l’utilità comune, e che devono essere messi a servizio degli altri, o della Chiesa, o della Comunitá, o dei poveri, o dei bisognosi, con grande serenità, con grande umiltà: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Soltanto chi è povero di spirito (ossia umile) riesce a mettere a servizio degli altri i “beni” ricevuti senza turbarsi e senza spaventare nessuno. Nel v. 27 si parla anche dei banchieri. Questi personaggi compaiono anche nella parabola raccontata da Luca. Cosa vogliono significare? Parlando di questi personaggi, Dio ci vuol fare capire una cosa importante: Egli non pretende necessariamente l’eroismo. Dio desidera che l’uomo gli risponda, e vorrebbe che ciascuno gli rispondesse al massimo delle proprie possibilità, per giungere alla santità più grande. Nello stesso tempo, però, Dio lascia che ciascuno gli risponda secondo una generosità libera, accettando anche il minimo, qualora la persona decidesse di non dare di più. In altre parole Dio desidera il massimo da ciascuno, peró si accontenta anche della minima risposta che l’uomo gli voglia dare:
“Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse”. L’insegnamento è questo: non si deve pensare che Dio, avendoci dato i suoi “beni”, poi dica: “O sviluppi al massimo i miei “beni” o sei perduto!”. Chi capisce cosí il giudizio di Dio sbaglia, perché il v. 27 insegna in modo diverso l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti, dopo averci dato i suoi “beni”. Certo, il Signore vorrebbe che questi “beni” venissero sviluppati al massimo, ma se questo non fosse possibile anche per nostra pigrizia, il Signore accoglierebbe ugualmente quello che in tal caso gli daremmo, anche se si trattasse dell’investimento meno pericoloso e meno rischioso, come è quello di affidare la somma ai banchieri. Il grado di santità raggiunto dalla persona, tuttavia, in questo caso non potrà essere grande. Esiste anche una giustizia proporzionale, dove il grado di felicitá celeste avrà pure una certa corrispondenza al grado di impegno a fare il bene o al grado di virtù raggiunto sulla terra. Diversamente, Dio sarebbe ingiusto.
La parabola narrata da Luca, sottolinea infatti questa giustizia proporzionale: il servo che ha guadagnato cinque mine, acquista potere su cinque città, e quello che ne ha guadagnate dieci, riceve autorità su dieci città. Nella parabola viene condannato quel servo che ha restituito a Dio la stessa somma che aveva ricevuto all’inizio.
Il Signore si attende almeno un investimento minimo, perché l’uomo si salvi. Il versetto chiave è il 28: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”. I beni di Dio, anche quando vengono usati male da colui che li riceve, e in tal modo sciupati, non vanno persi, ma vengono ridistribuiti ancora. Questo avviene per ogni cosa, come per esempio la preghiera: può succedere infatti che si preghi per la conversione di qualcuno che magari non si converte mai, perché non lo vuole. Queste preghiere il Signore le applica ad altri che vogliono convertirsi, qualora il loro destinatario le rifiutasse. E questo modo di fare vale per ogni caso. Nel Corpo Mistico di Cristo (cioè in tutto coloro che sono aperti a Cristo) non si perde mai niente. Il “bene” rifiutato da uno rimbalza, e va a finire altrove, accolto da qualcun altro, anche se noi non sappiamo niente.
Conclusione
- Dio dá con abbondanza a tutti, ma esige anche un impegno radicale.
- La Parabola dei talenti incoraggia e nello stesso tempo mette in guardia.
- La Parabola è una lezione e un avvertimento: ognuno di noi deve tenere sempre sotto gli occhi la duplice possibilità: il cielo o l’inferno; all’orizzonte si profila la ricompensa ma anche la punizione.
2. PARABOLA DEGLI OPERAI
INVITATI A LAVORARE NELLA VIGNA (Mt 20, 1-16)
Difficoltà di comprensione
I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie… Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri (Is 55, 8-9). Così Dio stesso ci dice come stanno le cose. Noi però facciamo di tutto per costruire un mondo secondo i nostri pensieri, costruiamo allora un mondo che non funziona. Ma corriamo anche un altro rischio: quello che troppo presto ci fa credere di capire le cose di Dio o il mistero della vita in cui siamo immersi. San Paolo ci avverte: Chi crede di sapere qualche cosa non ha ancora imparato come bisogna sapere (1Cor 8, 2). La parabola su cui vogliamo riflettere sembra fatta apposta per scombussolare le nostre idee e per suscitare interrogativi sul comportamento di Dio nei confronti dell’uomo. Gesù dunque racconta di un padrone che esce personalmente, più volte durante il giorno, a cercare operai per la sua vigna, e al termine della giornata paga con un denaro sia quelli che hanno lavorato un’ora soltanto, sia quelli che hanno lavorato tutto il giorno. Giustamente questi protestano. Ma il padrone risponde che dei suoi beni è libero di fare ciò che vuole e non fa ai primi un torto perché loro hanno ricevuto ció che era stato concordato.
La conclusione del racconto è piuttosto incomprensibile: Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi. L’intenzione della parabola è di farci conoscere qualche aspetto del Regno di Dio, di mostrare come funzionano le cose quando è Dio che governa. È difficile capire il comportamento del padrone sia verso i primi, cosí come verso gli ultimi. Verso gli ultimi lui si mostra molto generoso e benevole fuori dal normale e verso i primi a prima vista lascia un´impressione di ingiustizia. Ricordiamoci che questo sentimento di Giustizia è un diono che abbiamo ricevuto da Dio e la logica del nostro sentire ci dice che chi si comporta bene viene premiato e chi no viene castigato. Allo stesso modo sentiamo ripugnanza quando vediamo i disonesti riuscire nella vita mentre gli onesti ottengono meno di quanto sarebbe loro dovuto. È vero che un padrone può fare dei suoi beni quello che vuole, ma un padrone che non fa le cose giuste non è un buon padrone e non lascia di sé una buona impressione. È anche vero che i primi ricevono quanto avevano concordato, ma per il sentimento di giustizia è sottinteso che chi lavora di più guadagni di più e chi lavora di meno guadagni di meno. La protesta dei primi sembra quindi del tutto giusta, corretta e non da rimprovero. A questo punto si potrebbe dire che ai primi è toccata una doppia sfortuna:
1. quella di aver faticato tutta la giornata e
2. quella di venir trattati come coloro che hanno lavorato un’ora soltanto.
Agli ultimi invece è toccata una doppia fortuna: quella di aver lavorato poco e quella di aver guadagnato molto. Se così stanno le cose, meglio essere ultimi che primi.
Interrogativi
Esaminando il racconto da vari punti di vista vediamo che il comportamento del padrone fa contenti gli ultimi, scontenti i primi e lascia senza parole chi ascolta la parabola. Il dubbio è causato dal fatto che è impossibile combinare la doppia faccia del padrone: quella che mostra la sua generosità e quella che ti fa vedere l´ingiustizia senza motivo. A questo punto bisogna chiedersi:
qual´ è la vera faccia del padrone? Questa è la domanda che ogni persona si dovrebbe fare nei confronti di Dio. Qual è il suo vero volto? Quale volto incontrerò quando sarà passata la scena di questo mondo? Incontrerò un Dio buono e misericordioso o un giudice severo? Davanti a queste domande sono possibili vari atteggiamenti, i peggiori sono quello che cerca scuse illudendosi che i veri problemi sono altri, e quello che vuole scansare ad ogni costo il tormento e la fatica della ricerca. Chi si comporta cosí segue la via della perdizione e un giorno dovrà fare i conti con Colui che ci chiede di lavorare almeno un’ora nella sua vigna e noi nemmeno quel piccolo sforzo vogliamo fare. Allora la sentenza sarà: Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti (Mt 25, 30). Così Gesù condanna il servo che, per malvagità e pigrizia, non si era impegnato a trafficare il talento ricevuto in dono.
Un altro atteggiamento da evitare è quello di dire troppo presto: Ho capito. Quando frughiamo sulla “parola di Dio”, e tutto ciò che esiste è in fondo una parola di Dio, c’è da aspettarsi che le cose siano molto più meravigliose e profonde di quello che riusciamo a afferrare a prima vista. Esempio: al mattino vediamo il sole sorgere a est e alla sera lo vediamo tramontare a ovest, chi di noi, senza l´aiuto della scienza avrebbe capito che è la terra che si muove e non il sole? O perché d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo? O come funziona il nostro occhio o il nostro orecchio?
Alla ricerca del senso
Proviamo allora a cercare il vero volto del padrone o il senso profondo della parabola. Si potrebbe incominciare riflettendo sull’affermazione finale di Gesù: Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi. Ora, nella parabola, non c’è nessuno più ultimo di chi ha lavorato un’ora soltanto, e non c’è nessuno più primo di chi ha lavorato fin dal mattino. Allora, Gesù vuol forse insegnarci una strategia per riuscire a cavarsela facendo il meno possibile? Che cosa c’è negli ultimi di così prezioso da farli diventare primi agli occhi di Dio?
E che cosa c’è nei primi di così pericoloso nel loro cammino che Gesù gli dà l’ultimo posto? In effetti negli ultimi c´è una cosa preziosissima: una duplice consapevolezza: Sanno di non meritare quanto il padrone dá loro e quella che tutti coloro che sono arrivati prima al lavoro meritano più di loro. Ecco l’atteggiamento di umiltà che è richiesto per entrare nel regno di Dio. I primi invece non hanno questa duplice consapevolezza perché avendo iniziato a lavorare fin dal mattino, pensano di meritare quanto viene loro dato e di meritare di più rispetto ad altri. Questa presunzione di meritare qualcosa nei confronti di Dio e di meritare di più rispetto ad altri, è contraria allo spirito di umiltà richiesto per entrare nel Regno di Dio; Ecco la necessità perché i primi devono diventare gli ultimi, se accettano di compiere questo cammino di umiltà allora riceveranno anche loro molto di più di quanto riusciranno a sperare. A questo punto possiamo dire che la parabola allora, non ci vuole mostrare come funziona la giustizia nel Regno di Dio, ma come dobbiamo funzionare noi per poterci entrare, quale è l’atteggiamento che ci rende graditi agli occhi di Dio e scatena la sua generosità. É l’umiltà che ci rende felice di essere ultimi e contenti di considerare tutti gli altri più meritevoli di noi. Possiamo ancora osservare che negli ultimi, proprio perché ricevono molto di più di quanto si aspettavano, spuntano sentimenti di gratitudine e di amore verso il padrone e nei confronti dei compagni sentimenti di umiltà, perché sono coscienti che loro hanno lavorato di piú. Il rischio invece che corrono i primi, è quello di ritenersi superiori agli altri, di non essere troppo benevoli e disprezzare chi, per vari motivi, non può dare molto, anzi, può dare poco, solo un’ora di lavoro. Questo atteggiamento li mette in condizioni di essere ingrati per quello che ricevono. Vediamo allora che la parabola, ci fa riflettere sulle condizioni per essere graditi a Dio, per funzionare bene nel suo Regno. Le condizioni sono:
1. dare almeno un’ora di lavoro,
2. non avere la presunzione che siamo noi a dire a Dio ció che ci deve dare
3. ritenere tutti gli altri superiori e più meritevoli,
4. avere sentimenti di gratitudine e amore verso Dio.
La parabola ci mostra invece il volto buono di un padre che vuole dare molto anche a chi riesce a dare solo poco.
Verifica dell’umiltà
Ma il sentimento di ingiustizia che questo comportamento suscita? Proviamo a lasciare in sospeso per il momento la domanda e chiediamoci: noi, rispetto alla perfezione dell’umiltà che la parabola suggerisce, come siamo messi? Come reagiamo se veniamo trascurati, disprezzati, offesi, umiliati? Come reagiamo se vediamo altri apprezzati, onorati, elogiati, stimati? Qual è il nostro atteggiamento verso le persone umili e gli atti di umiltà e quale il nostro atteggiamento verso le persone importanti? Qual è il nostro giudizio sugli atti di chi cerca il proprio prestigio e la propria gloria? Come reagiamo nei confronti delle persone che sbagliano?… Ma soprattutto, il nostro desiderio a che cosa aspira? Tende verso i primi posti o è contento di cercare l’ultimo posto? Oltre alla verifica proposta da queste domande, conviene considerare che molto probabilmente, nel migliore dei casi, non siamo messi molto diversamente dagli apostoli. Ora, gli apostoli di esempi e di insegnamenti sull’umiltà da parte di Gesù ne avevano visti e sentiti parecchi. Dall’umiltà della sua nascita a Betlemme, ai lunghi anni di vita ordinaria e laboriosa in un piccolo villaggio della Galilea – sempre nella casa di Maria e Giuseppe – al suo mettersi in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di Giovanni. E poi gli insegnamenti: beati i poveri, gli afflitti, i perseguitati (Mt 5, 3ss). Quando sei invitato a nozze non metterti al primo posto (Lc 14, 8). Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: siamo servi inutili abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Lc 17, 10). Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29). La parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio (Lc 18, 10). E poi la lode al Padre che rivela i suoi segreti ai piccoli (Mt 11, 25).
Ma nonostante la chiarezza, l’abbondanza e l’autorevolezza di questi insegnamenti, pochi versetti dopo la parabola che stiamo meditando viene narrato l’episodio della madre dei figli di Zebedeo che chiede a Gesù un posto di prestigio per i figli Giacomo e Giovanni (Mt 20, 20-21). Dal Vangelo di Luca sappiamo che l’aspirazione a essere primi era comune a molti, leggiamo infatti: E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande (Lc 22, 24). Allora Gesù ribadisce: Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo (Mt 20, 26-27). E Sano Paolo ai Filippesi dirà: Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso (Fil 2, 3). Questo episodio mostra come la nostra inclinazione non sia affatto di seguire gli insegnamenti e gli esempi di Gesù sull’umiltà, ma di andare nella direzione opposta. Se siamo onesti dobbiamo ammettere che molte volte anche noi, come i farisei, facciamo sì opere buone, ma in esse c’è anche un segreto desiderio di essere ammirati dagli uomini (Mt 23, 5). Quante volte ingrandiamo più del dovuto ciò che ci riguarda. Oppure ci arrampichiamo sui vetri per non ammettere che certe cose non le conosciamo o le conosciamo in modo superficiale. A volte mentiamo anche, lasciando credere di sapere ciò che non sappiamo, oppure, per essere lodati e ammirati, lasciamo credere che sia farina del nostro sacco ciò che appartiene ad altri. Simili tendenze sono gravi, dimostrano infatti che più della verità cerchiamo stupidamente la nostra gloria. Oppure, più miseramente, cerchiamo di nascondere le nostre nudità. Allora, nei confronti della vigna destinata a produrre grappoli di umiltà, abbiamo già risposto all’invito del Signore per mettere in pratica i suoi esempi e i suoi insegnamenti? Forse si, forse no.
… come il lavoro di un’ora
Supponiamo che qualcuno fin dal primo mattino si sia impegnato a lavorare scrupolosamente questo vitigno, giunto alla sera che cosa dovrà constatare? Dovrà constatare che pur avendo lavorato tanto, avrà ottenuto molto poco. Poco come chi avesse lavorato un’ora soltanto. E la stessa cosa si può dire per il lavoro svolto nella cura di altri vitigni come la pazienza, la benevolenza, la delicatezza, l’obbedienza, la fortezza, il coraggio… ma soprattutto tutto ciò che riguarda la fede, la speranza e la carità. L’affermazione di Gesù che i primi devono diventare ultimi la possiamo considerare allora come un invito a prendere coscienza della nostra reale posizione davanti a Dio. La nostra risposta all’amore di Dio, per quanto facciamo, sarà sempre inadeguata e insufficiente, così come la nostra fede e la nostra speranza. La nostra risposta è come quella di chi, in una giornata, riesce a lavorare un’ora soltanto, siamo tutti operai dell’ultima ora. C’è un’orazione della messa che molto opportunamente ci invita a prendere coscienza della nostra povertà, essa dice: all’estrema povertà dei nostri meriti, supplisca l’aiuto della tua misericordia. Ecco perché non c’è ingiustizia verso nessuno, nessuno infatti riceve quello che merita, ma tutti, per la bontà del padrone, riceviamo molto di più di quanto meritiamo. Tutti siamo operai dell’ultima ora, ma rispetto a questo dato di fatto ci possono essere diversi gradi di consapevolezza; tali gradi li possiamo vedere rappresentati nei vari gruppi che durante la giornata lavorano più o meno a lungo. Nei gruppi delle ultime ore è più forte la consapevolezza di non meritare gran ché e di essere i più poveri e indegni di tutti; questa consapevolezza è massima negli ultimi e molto debole o quasi inesistente nei primi, ecco perché questi devono diventare ultimi. Quando il Signore, sconcertando tutti, afferma che i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel Regno di Dio (Mt 21, 31), o nella parabola invita al banchetto poveri, storpi, ciechi e zoppi… (Lc 14, 21) o accoglie in Paradiso il buon ladrone (Lc 23, 39-43), manifesta e applica la logica piuttosto strana che governa le cose nel Regno di Dio. Come abbiamo visto, secondo questa logica più uno è povero, misero e debole, più è consapevole di non meritare nulla e di essere l’ultimo di tutti, più è gradito agli occhi di Dio, il quale non aspetta altro per manifestare la sua misericordia e la sua generosità. Nessuna prostituta può ritenersi degna del Regno di Dio, nessun poveraccio può aspirare a partecipare a un banchetto regale, e il buon ladrone si riteneva degno soltanto del castigo che subiva; eppure proprio queste povertà e queste miserie, se vengono raggiunte dalla grazia, possono generare un’umiltà priva di arroganza capace di affascinare il cuore di Dio e indurlo a colmare al di là di ogni attesa queste povertà.
Santi e peccatori
Per tentare di comprendere il paradosso di questa logica proviamo ad immaginare, verso la fine della loro vita, un ergastolano e una prostituta da una parte e un monaco e una monaca di clausura dall’altra. Ora, potrebbe anche accadere che l’ergastolano e la prostituta entrino prima e ottengano un posto migliore nel Regno di Dio del monaco e della monaca. Se l’ergastolano e la prostituta, la cui vita non è altro che un cumulo di disastri e di macerie, vengono raggiunti dalla grazia, ossia se nel più intimo del loro cuore e della loro miseria fanno l’esperienza dell’amore di Dio, amore che non li respinge ma li accoglie e li perdona, questo può scatenare in loro una gratitudine, un amore e un’umiltà così profondi da ottenere una ricompensa uguale a quella meritata dal monaco e dalla monaca. Così pur avendo lavorato un’ora soltanto vengono ricompensati come se avessero lavorato tutto il giorno. E il monaco e la monaca, più sono avanti nella via della perfezione, più si rallegrano di fronte allo stupefacente spettacolo di un Dio che è capace di elevare ai massimi gradi di santità chi ha trascorso la vita negli abissi della miseria. La specialità di Dio è quella di sollevare l’indigente dalla polvere, e dall’immondizia rialzare il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Così canta il salmo 112, 7-8. Inoltre, colui al quale si perdona poco, ama poco (Lc 7, 47). Da cui segue che colui a cui si perdona molto ama molto. È questo in fondo ciò che Dio vuole ottenere da tutti, un grande amore verso Lui e verso i fratelli. Per raggiungere questo obbiettivo la sua misericordia può adottare due vie o due stratagemmi: quello di perdonare molto a chi sbaglia molto, e sono gli operai dell’ultima ora; e quello di perdonare in anticipo chi, senza abbondanti grazie preventive, sbaglierebbe ugualmente molto, e sono gli operai della prima ora. La parabola ci dice però che gli operai della prima ora hanno una certa difficoltà a rendersi conto che in fondo sono anche loro persone a cui è stato perdonato molto. Ecco ancora la necessità di diventare ultimi, ossia di scoprirsi perdonati tanto quanto i peccatori più peccatori della terra. È quanto sentiamo spesso ripetere dai santi: non c’è sulla terra uno più peccatore e più miserabile di me. Quando il santo e il peccatore raggiungono la consapevolezza di essere dei perdonati, raggiungono entrambi l’ultimo posto e ottengono la massima ricompensa, ossia la scoperta di una misericordia che va al di là di ogni immaginazione, scoprono il vero volto di Dio. Possiamo allora dire che è impossibile scoprire il vero volto di Dio se non accettiamo di lasciarci condurre verso l’ultimo posto, vale a dire a scoprire l’estrema povertà dei nostri meriti, a scoprire che siamo tutti dei perdonati e degli operai dell’ultima ora. Più acconsentiremo a diventare consapevoli di questo, non resistendo troppo alla Luce divina che proprio le nostre povertà e il nostro nulla vuole in un primo tempo mostrarci, più gioiremo; infatti, nella parabola come nella realtà, nessuno ha una gioia più grande degli operai dell’ultima ora, perché nessuno più di loro è consapevole di non meritare quanto il padrone dona loro. Mentre la gioia diminuisce via via che qualcuno si ritiene degno di meritare un po’ il suo salario.
L’insegnamento dei maestri
Per concludere, integrare e confermare le cose dette ascoltiamo l’insegnamento di due autorevoli maestri. Sul fatto che siamo tutti dei perdonati santa Teresina di Lisieux così si esprime: Io non ho dunque alcun merito per non essermi abbandonata all’amore delle creature, poiché da esso fui preservata per grande misericordia del Signore! Riconosco che senza lui avrei potuto cadere in basso quanto santa Maddalena… Lo so, colui al quale si rimette meno, ama meno, ma so anche che Gesù mi ha rimesso più che a santa Maddalena perché mi ha rimesso in anticipo impedendomi di cadere… Se il mio cuore non fosse stato innalzato verso Dio fin dal primo risveglio, se il mondo mi avesse sorriso fin dal mio entrare nella vita, che sarei diventata? (Man A 119-120, 124).
Circa il fatto di lavorare molto ma di riuscire a ottenere molto poco ascoltiamo ancora Teresina: Ahimè! Quando mi riporto al tempo del mio noviziato vedo quanto ero imperfetta…Più tardi, senza dubbio, il tempo attuale mi parrà ancora pieno d’imperfezioni, ma ora non mi stupisco più di nulla, non mi affliggo vedendo che sono la debolezza stessa, al contrario, in essa mi glorio (2 Cor 12, 5) e mi aspetto giorno per giorno di scoprire in me nuove imperfezioni (Man C 294). E don Divo Barsotti: Nonostante la mia povertà, nonostante che abbia sciupato tutta la vita, vivendo solo di desiderio una vita fiacca e vuota di amore, dammi di credere alla tua Misericordia. Sono ormai alle soglie della morte, vedo come avrei dovuto impegnarmi e come di fatto non ho saputo far nulla per te (Diario Figli nel Figlio p. 96). E ancora. Quando penso che è vicina la morte mi vorrebbe prendere lo sgomento. Ho rovinato tutto, mi sento povero e nudo. Eppure sento che lo sgomento è ancora frutto di amor proprio. Dio può in poco tempo riparare non solo col perdono, ma col realizzare in me quello che io non ho fatto (Diario citato p. 123). E il padrone che considera il lavoro di un’ora come se fosse il lavoro di un’intera giornata, autorizza questa speranza. Sull’atteggiamento da avere nei confronti dei fratelli sentiamo ancora don Barsotti: Non solo accettare, ma anche godere che gli altri siano migliori di te e abbiano maggiore successo (Diario p. 101). Ancora sulla nostra povertà e sull’ultimo posto. L’Onnipotente ha fatto grandi cose nell’anima di colei che è figlia della sua divina Madre, e la più grande è di averle mostrato la sua piccolezza, la sua impotenza (Teresina Man C 274). È la mia miseria che attira il suo amore. La conoscenza viva e dolorosa della mia povertà non fa che accrescere la mia fiducia. Non è presunzione: il vuoto della creatura attira irresistibilmente la grazia (Barsotti Diario p. 132). L’unica cosa che non sia esposta all’invidia, è l’ultimo posto; non c’è che quest’ultimo posto che non sia per nulla vanità e afflizione di spirito. Ciò nonostante, “la via dell’uomo non è in suo potere” (Ger 10, 23), e talvolta ci sorprendiamo a desiderare ciò che attira per il suo splendore…… Appena egli ci vede convinte del nostro nulla, ci tende la mano. Se vogliamo ancora tentare di far qualcosa di grande, sia pure sotto pretesto di zelo, il buon Gesù ci lascia sole. “Ma, da quando ho detto: il mio piede vacilla, la vostra misericordia, Signore, mi ha sorretto” (Sal 93, 18). Si, basta umiliarsi, sopportare con dolcezza le proprie imperfezioni: ecco la vera santità. Prendiamoci per mano, sorellina amata, e corriamo ad occupare l’ultimo posto: nessuno verrà a contendercelo (Teresina Lettera 215). Gli apostoli senza Nostro Signore lavorarono tutta la notte e non presero neppure un pesce, ma la loro fatica era accetta a Gesù. Voleva mostrare loro che lui soltanto ci può dare qualche cosa. Voleva che gli apostoli si umiliassero…”Figlioli, dice loro, avete nulla da mangiare? (Gv 21, 5) Signore – rispose san Pietro – abbiamo pescato tutta la notte senza prendere nulla (Lc 5, 5)”… Non avevano nulla, e così Gesù riempì subito la loro rete in modo da farla rompere. Ecco qual è il carattere di Gesù: dona da Dio, ma vuole l’umiltà del cuore (Teresina Lettera 140).
Chi consola questa parabola
Giunti a questo punto potremmo dire che la parabola tanto più consola e dona speranza quanto più si è consapevoli di essere poveri, miseri, impotenti, indegni, peccatori, in una parola quanto più si è ultimi. All’ultimo posto si può giungere percorrendo due vie: una in cui si è perdonati e risollevati dai disastri e dalle macerie dall’amore misericordioso di Dio; l’altra in cui, lo stesso amore misericordioso, perdona in anticipo e preserva dagli stessi disastri e dalle stesse macerie. In realtà, nella vita di ogni uomo, il perdono che risolleva dalla caduta e il perdono che la previene è distribuito in varia proporzione dalla Sapienza di Dio. A chi accetta di diventare ultimo, l’ora di lavoro che a tutti è richiesta, verrà calcolata, per la bontà di Dio, come se avesse prodotto il lavoro di un’intera giornata, ossia verrà dato a tutti al di là di ogni immaginazione. Per gli uni l’ora di lavoro vuole dire aprire il cuore alla verità, al pentimento e all’amore di Dio. Per gli altri è accettare di riconoscere l’estrema povertà dei nostri meriti, ossia che la nostra risposta all’amore di Dio è paragonabile all’opera di chi, in una giornata, lavora un’ora soltanto. Ma, il colpo di scena finale rivela che il nostro poco amore verrà calcolato come se fosse un amore capace di dare la vita, la nostra poca fede come se fosse una fede capace di spostare le montagne, la nostra poca speranza come se avessimo passato la vita a desiderare Dio solo… Che il Signore ci doni di comprendere il suo cuore e di gioire per la sua bontà. A Lui onore e gloria nei secoli, Amen.
Domanda conclusiva: Secondo te, serve o non serve lavorare nella vigna del Signore fin dalla prima ora (cioè a che serve essere sempre cristiani buoni e fedeli fin da sempre) se poi alla fine della vita, si riceve lo stesso premio (o la stessa paga, cioè il Paradiso!) di chi si è convertito all’ultimo momento? (Vedi per es. il buon ladrone, crocifisso con Gesú: “oggi sarai con me in Paradiso!”).