PROCESSO A GESÚ NELLA NOTTE TRA GIOVEDÍ 6 APRILE e VENERDÍ 7 APRILE DELL’ANNO 30

“Eccoti il colpevole, Hanna”, dice il delinquente che ha trascinato Gesú davanti all’autoritá ebraica. “Chi sei Tu?”, chiede Hanna, il suocero del Sommo sacerdote Caifa. “Gesú di Nazaret, il Cristo. E tu mi conosci. Io non ho agito mai nelle tenebre“. “Nelle tenebre, no. Ma hai fuorviato le folle con dottrine tenebrose. E il Tempio ha il diritto e il dovere di tutelare l’anima dei figli di Abramo”. “L’anima?!. Sacerdote di Israele, tu puoi dire che per l’anima del piú piccolo o del piú grande di questo popolo tu hai sofferto?”. “E Tu allora? Che hai fatto che possa chiamarsi sofferenza?“ „Che ho fatto? Perché me lo chiedi? Tutto Israele parla. Dalla cittá santa al piú misero paese anche le pietre parlano per dire quanto ho fatto. Ho dato la vista ai ciechi: la vista degli occhi e del cuore. Ho aperto l’udito ai sordi: alle voci della Terra e alle voci del Cielo. Ho fatto camminare gli storpi e i paralitici, perché iniziassero la marcia verso Dio col corpo e con lo spirito. Ho guarito i lebbrosi, dalle lebbre che la Legge mosaica segnala e da quelle che rendono infetti presso Dio: i peccati. Ho risuscitato i morti, non solo richiamando alla vita un corpo morto ma anche redimendo dei peccatori, e l’ho fatto. Ho soccorso i poveri insegnando agli avidi e ricchi ebrei il precetto santo dell’amore del prossimo e, rimanendo povero nonostante il fiume d’oro che mi passó fra le mani, ho asciugato piú lacrime Io solo che non tutti voi, possessori di ricchezze. Ho dato infine una ricchezza che non ha nome: la conoscenza della Legge, la conoscenza di Dio, la certezza che siamo tutti uguali e che agli occhi santi del Padre sia l’imperatore, sia il Pontefice, sia il mendicante, sia il lebbroso. Questo ho fatto. Nulla piú!”. “Sai che da Te stesso ti accusi? Tu dici: c’è una lebbra che non è segnalata da Mosé e che rende peccatori davanti a Dio. Tu insulti Mosé e insinui che vi sono mancanze nella sua Legge… Non sua: ma di Dio. Tu osi dire che puoi rimettere i peccati. Come lo fai?“ “Se con un poco di acqua e con il sacrificio di un ariete é possibile e credibile annullare una colpa, espiarla ed esserne liberati, come non lo potrá il mio pianto, il mio Sangue e il mio volere?”. „Ma Tu non sei morto. Dove c‘é allora il Sangue?“. „Non sono ancora morto. Ma lo saró perché cosí é scritto. In Cielo, nel tuo cuore, in quello di Caifa e del Sinedrio che non mi perdonano, no, questi cuori non mi perdonano di essere buono. Io ho assolto, anticipando sul Sangue. Ora compio l’assoluzione col lavacro in esso”. “Tu ci dici avidi e ignoranti del precetto d’amore!”.  „E non é forse vero? Perché mi uccidete? Perché avete paura che Io vi detronizzi? Oh! non temete. Il mio Regno non é di questo mondo. Vi lascio padroni di ogni potere. L’Eterno sa quando dire il “Basta” che vi fará cadere fulminati… Come Doras, eh?. Egli morí d’ira. Non per fulmine celeste. Dio lo attendeva dall’altra parte per fulminarlo”. „E lo ripeti a me? Suo parente? Osi?“.

«Io sono la Verità. E la Verità non è mai vile». «Superbo e pazzo!».
«No: sincero. Mi accusi di offendervi. Ma non siete forse voi stessi che odiate tutti? L’un coll’altro vi odiate. Ora l’odio verso di Me vi unisce. Ma domani, quando mi avrete ucciso, tornerà l’odio fra voi, e più feroce, e vivrete con questa iena alle spalle e questo serpente nel cuore. Io ho insegnato l’amore. Per pietà del mondo. Ho insegnato ad essere non superbi, ma ad avere misericordia. Di che mi accusi?». «Di avere insegnato una dottrina nuova». «O sacerdote! Israele è piena di nuove dottrine: gli esseni hanno la loro, i sadochiti la loro, i farisei la loro; ognuno ha la sua dottrina segreta, che per uno ha nome il piacere, per l’altro l’oro, per l’altro il potere; e ognuno ha il suo idolo. Non io. Io ho ripreso la calpestata Legge del Padre mio, del Dio eterno, e sono tornato a dire semplicemente le dieci proposizioni del Decalogo, sgolandomi per farle entrare nei vostri cuori che non le conoscevate più».
«Orrore! Bestemmia! A me, sacerdote, dire questo? Non ha un Tempio, Israele? Siamo come i deportati di Babilonia? Rispondi». «Questo siete. E più ancora. C’è un Tempio, in Gerusalemme, certo! Ma é soltanto un edificio. Dio non c’è. È fuggito davanti alle cose vergognose che ci sono nella sua casa. Ma perché mi interroghi tanto, se ormai avete deciso la mia morte?».
«Non siamo assassini noi. Uccidiamo solo se ne abbiamo il diritto in seguito a prove chiare. Ma io ti voglio salvare. Parla, e ti salverò. Dove sono i tuoi discepoli? Se Tu me li consegni, io ti lascio libero. Il nome di tutti, soprattutto di quelli nascosti e segreti. Di’: Nicodemo è tuo? E tuo Giuseppe? E Gamaliele? E Eleazaro? E… Ma di questo lo so… Non occorre. Parla. Parla. Lo sai: ti posso uccidere e salvare. Sono potente». «Sei fango. Lascio al fango il mestiere della spia. Io sono Luce». Uno servo del sacerdote gli sferra un pugno. «Io sono Luce. Luce e Verità. Ho parlato apertamente al mondo, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio, dove si radunano i giudei, e nulla ho detto in segreto. Lo ripeto. Perché interroghi Me? Interroga quelli che hanno sentito ciò che Io ho detto. Essi lo sanno».
Un altro servo gli dá un altro ceffone urlando: «Così rispondi al Sommo Sacerdote?». «Ad Anna Io parlo. Il Sommo Sacerdote è Caifa. E parlo col rispetto dovuto per il vecchio. Ma se ti pare che abbia parlato male, dimostramelo. Se no, perché mi percuoti?». «Lascialo fare. Io vado da Caifa. Voi tenetelo qui fino a mio comando. E fate che non parli con nessuno». Anna esce. Gesù resta fra gli aguzzini. Colpi di corda, sputi, battute, calci, stiracchiate ai capelli. Finché un servo viene a dire di portare il Prigioniero in casa di Caifa.
E Gesù, sempre legato e malmenato, esce di nuovo sotto il portico, lo percorre fino ad un androne e poi attraversa un cortile in cui molta folla si scalda ad un fuoco, perché la notte si è fatta rigida e ventosa in queste prime ore del venerdì. C’è anche Pietro con Giovanni, mescolati fra la folla ostile. E devono avere un bel coraggio a stare lì… Gesù li guarda e ha un’ombra di sorriso sulla bocca già gonfiata dai colpi ricevuti. Un lungo cammino fra portici e atri e cortili e corridoi. Ma nel recinto della casa del Sommo sacerdote la folla non entra. Viene respinta. Gesù va solo, fra guardie e sacerdoti. Entra in una vasta sala. Mentre Gesù sta per entrare, il grande Rabbi, Gamaliele, lo raggiunge e le guardie danno uno spinta al Prigioniero perché faccia passare Gamaliele. Ma questi, rigido come una statua, solenne, rallenta e, muovendo appena le labbra senza guardare nessuno, chiede: «Chi sei? Dimmelo». E Gesù dolcemente: «Leggi i profeti e ne avrai risposta. Il segno primo di me è in essi. L’altro verrà».
Gamaliele raccoglie il suo mantello ed entra. E dietro a lui entra Gesù. Mentre Gamaliele va su uno scanno, Gesù viene trascinato al centro dell’aula, di fronte al Pontefice: una faccia da delinquente vera e propria. E si aspetta finché entrano tutti i membri del Sinedrio.
Poi ha inizio la seduta. Ma Caifa vede due o tre seggi vuoti e chiede: «Dove è Eleazaro? E dove Giovanni?». Si alza un giovane scriba, si inchina e dice: «Hanno rifiutato di venire. Questa è la loro lettera». «Si conservi e si scriva che sono assenti. Ne risponderanno. Che hanno i santi membri di questo Consiglio da dire sopra costui?».
«Io parlo. Nella mia casa Egli violò il sabato. Me ne è testimonio Dio se io mento. Ismael ben Fabi non mente mai».
«È vero, accusato?». Gesù tace. «Io lo vidi convivere con prostitute ben conosciute. Fingendosi profeta, aveva fatto della sua casa una casa di prostituzione e per giunta con donne pagane.  Io dico la veritá”. «Che dici?», chiede il Sommo sacerdote. Gesù tace.
«Quest’uomo è indemoniato. Viene dall’Egitto, esercita la magia nera». «Come lo provi?». «Sulla mia fede e sulle tavole della Legge!». «Grave accusa. Discolpati», dice a Gesú il Sommo Sacerdote.
Gesù tace. «Illegale è il tuo ministero, lo sai. Merita la pena di morte. Parla». «Illegale è questa nostra seduta. Alzati, Simeone, e andiamo», dice Gamaliele. «Ma rabbi, sei diventato matto?». «Rispetto le regole. Non è lecito procedere come stiamo procedendo. E ne farò pubblica denuncia». E il grande rabbi Gamaliele esce, rigido come una statua, seguito da un uomo sui trentacinque anni che gli somiglia. Vi è un poco di agitazione.  Nicodemo e Giuseppe approfittano per parlare in favore di Gesú. «Gamaliele ha ragione. L’ora del processo è illecita e anche il luogo; le accuse, poi, sono tutte inconsistenti! Chi puó accusarlo di disprezzo contro la Legge di Mosé? Io gli sono amico e giuro che l’ho sempre trovato rispettoso della Legge di Mosé», dice Nicodemo. «Ed io pure. E per non essere complice di un delitto, esprimo tutta la mia vergogna, non per Lui, ma per noi tutti del Sinedrio, ed esco».  E Giuseppe fa per scendere dal suo posto e uscire. Ma Caifa sbraita: «Ah! così dite? Vengano i testimoni giurati, allora. E udite. Poi ve ne andrete». Entrano due tipi da galera. Sguardi sfuggenti, risate maliziose e crudeli, movimenti ambigui. «Parlate». «Non è lecito udirli insieme», urla Giuseppe. «Io sono il Sommo Sacerdote. Io ordino. E silenzio!». Giuseppe dà un pugno su un tavolo e dice: «Si aprano su te le fiamme del Cielo! Da questo momento sappi che l’Anziano Giuseppe è nemico del Sinedrio e amico del Cristo. E con questo passo vado a dire al Pretore che qui si uccide senza rispettare le leggi di Roma», ed esce violentemente dando uno spintone ad un magro e giovane scriba che lo vorrebbe trattenere. Nicodemo, più pacato, esce senza dire parola. E nell’uscire passa davanti a Gesù e lo guarda… Nuovo tumulto. Si teme Roma. E la vittima espiatoria è sempre e ancora Gesù.
«Vedi? Per Te è successo tutto questo! Tu hai corrotto i migliori giudei. Li hai prostituiti!». Gesù tace. «Parlino i testimoni», urla Caifa. «Sì, costui usava il… il… Lo sapevamo… Come si chiama quella cosa?». «Il tetragramma forse?». «Ecco! L’hai detto! Richiamava i morti. Insegnava la ribellione contro la legge del sabato e la profanazione dell’altare. Lo giuriamo. Diceva che Egli voleva distruggere il Tempio per riedificarlo in tre giorni con l’aiuto dei demoni». «No. Diceva: non sarà fabbricato dall’uomo». Caifa scende dal suo seggio e viene presso Gesù. Piccolo, grasso, brutto, pare un enorme rospo vicino ad un fiore. Perché Gesù, nonostante sia ferito, contuso, sporco e spettinato, è ancora tanto bello e, maestoso. «Non rispondi? Che accuse ti fanno! Orrende! Parla, per levare da Te la vergogna». Ma Gesù tace. Lo guarda e tace. «Rispondi a me, allora. Sono il tuo Pontefice. In nome del Dio vivo io ti scongiuro. Dimmi: sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio?». «Tu lo hai detto. Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza del Padre, venire sulle nubi del cielo. Del resto, a che scopo mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni. Nulla ho detto di nascosto. Interroga quelli che mi hanno udito. Essi ti diranno ciò che ho detto e ciò che ho fatto». Uno dei soldati che lo tengono lo colpisce sulla bocca, facendola sanguinare di nuovo, e urla: «Così rispondi, o satana, al Sommo Pontefice?». E Gesù, mite, risponde a questo come a quello di prima: «Se ho parlato bene, perché mi percuoti? Se ho parlato male, perché non mi dici dove sbaglio? Ripeto: Io sono il Cristo, Figlio di Dio. Non posso mentire. Il sommo Sacerdote, l’eterno Sacerdote io sono. E io solo porto la Dottrina e la Verità. E a queste io sono fedele. Sino alla morte, ignominiosa agli occhi del mondo, santa agli occhi di Dio, e sino alla beata Risurrezione. Io sono il Consacrato. Pontefice e Re io sono. E sto per prendere il mio scettro e con esso, purificare il mondo. Questo Tempio sarà distrutto e risorgerà, nuovo, santo. Perché questo è corrotto e Dio lo ha lasciato al suo destino». «Bestemmiatore!», urlano tutti in coro. «In tre giorni lo ricostruirai? Sei pazzo e posseduto da Satana!». «Non questo. Ma il mio risorgerà, il Tempio del Dio vero, vivo, santo, tre volte santo». «Scomunicato!», urlano di nuovo in coro. Caifa alza la sua voce rauca, e si strappa le vesti di lino con gesti teatrali, e dice: «Che altro abbiamo da udire dai testimoni? La bestemmia è detta. Che dunque facciamo?». E tutti in coro: «Sia colpevole della pena di morte». E con atti di sdegno e di scandalo escono dalla sala, lasciando Gesù in balia degli sgherri e della plebaglia dei falsi testimoni, che con schiaffi, con pugni, con sputi, legandogli gli occhi con uno straccio e poi tirandogli violentemente i capelli, lo sbalestrano qua e là a mani legate, di modo che urta contro tavoli, sedie e muri, e intanto gli chiedono: «Chi ti ha percosso? Indovina». E più volte, facendogli sgambetto fra le gambe, lo fanno stramazzare a terra, e ridono sgangheratamente vedendo come, a mani legate, Egli stenti a rialzarsi. Passano così le ore, e i carnefici, stanchi, pensano di prendere un poco di riposo. Portano Gesù in uno sgabuzzino, facendogli attraversare molti spiazzali fra le risate sguaiate della gente, già numerosa nel recinto delle stanze pontificali. Gesù giunge nello spiazzale dove è Pietro vicino al fuoco. E lo guarda. Ma Pietro ne sfugge lo sguardo. Giovanni non c’è più. È andato via con Nicodemo… L’alba si avvicina. Viene dato un ordine: riportare il Prigioniero nella sala del Consiglio per un processo più legale. È il momento in cui Pietro nega per la terza volta di conoscere il Cristo: infatti, quando Gesú, già segnato dalle sofferenze e dal dolore del mondo passa, si sente l’aspra voce di Pietro, che dice: «Lo giuro, donna. Non lo conosco». Subito risponde il canto di un gallo che getta nell’aria il suo grido irridente, sarcastico, monello. E proprio in quel momento Pietro ha un sussulto. Gira su se stesso per fuggire e si trova di fronte a Gesù che lo guarda con infinita pietà e con un dolore accorato e intenso. Pietro ha un singhiozzo ed esce barcollando come fosse ubriaco. Fugge dietro a due servi che escono nella via e si perde giù per la strada ancora semibuia. Gesù è riportato nell’aula. E gli ripetono in coro la domanda tranello: «In nome del Dio vero, di’ a noi: sei il
Cristo?». E, davanti alla risposta positiva di Gesú, lo condannano a morte e dànno ordine di condurlo a Pilato. Gesù, scortato da tutti i suoi nemici meno Anna e Caifa, esce ripassando da quei cortili del Tempio in cui tante volte aveva parlato e guarito, entra nelle vie cittadine e, più strascinato che condotto, scende verso la città che si colora di rosa: l’alba si sta trasformando in aurora.
Da un palazzo esce al galoppo un cavaliere. «Indietro!», urla. «Come vi permettete turbare il riposo del Governatore? Ancora quest’uomo… lasciatemelo vedere… Scostatevi, o chiamo le guardie…». La gente si apre, e Manaen, il cavaliere, raggiunge il gruppo di Gesù e delle guardie del Tempio che lo tengono.
«Via! Indietro. Gli voglio parlare», e ci riesce, caricando con la sua spada il più accanito dei carcerieri.
«Maestro!…». «Grazie. Ma vai! E Dio ti conforti!». E, come può, con le mani legate, Gesù fa un cenno di benedizione.
La folla fischia da lontano e, non appena vede che Manaen si ritira, si vendica d’essere stata respinta, lanciando una grandine di pietre e di immondezze contro il Condannato. Per il viale, che è in salita, ci si avvia verso la torre Antonia, sede del Governatore Ponzio Pilato, la cui costruzione già appare lontano. Si sente un grido acuto di donna: «Oh! il mio Salvatore! La mia vita per la sua, o Eterno!». Gesù gira la testa e vede Giovanna di Cusa fra serve e servi, coi piccoli Maria e Mattia intorno, tendere le braccia al cielo. Ma il Cielo non sente preghiera oggi! Gesù solleva le mani e traccia un gesto di benedicente addio. «A morte! A morte il bestemmiatore, il corruttore, il satanasso! A morte gli amici di lui», e fischi e sassi vengono gettati verso l’alta terrazza. Ad un certo punto si sente un grido acutissimo: probabilmente è stato ferito qualcuno della folla.  Alcuni soldati romani escono di corsa dalla residenza del Governatore con le aste puntate contro la plebaglia, che urlando si sperde. Restano in mezzo alla strada Gesù con le guardie e i capi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani del popolo.
«Quest’uomo? Questa sedizione? Ne risponderete a Roma», dice altezzoso un centurione. «È reo di morte secondo la nostra legge».
«E da quando vi è stato concesso il diritto di condannare a morte? Questo diritto è riservato solo al procuratore di Roma!”, chiede il più anziano dei centurioni, un volto severo, veramente romano, con una guancia divisa da una cicatrice profonda. E parla con disprezzo. «Lo sappiamo che non lo abbiamo questo diritto. Siamo i fedeli dipendenti di Roma…». «Ah! Ah! Ah! Sentili, Longino! Fedeli! Dipendenti! Carogne, siete!”.  I capi dei sacerdoti, scribi e anziani spumano veleno. Ma vogliono ottenere lo scopo loro e tacciono, inghiottono l’offesa senza mostrare di capirla e, inchinandosi ai due capi, chiedono che Gesù sia portato da Ponzio Pilato perché «giudichi e condanni con la ben nota e onesta giustizia di Roma». «Ah! Ah! Sentili! Andate avanti! Non si sa mai. Voi siete sciacalli e fetenti. Andate avanti!». «Non possiamo». «E perché? Quando uno accusa deve andare insieme con l’accusato, davanti al giudice. Questa è la legge di Roma». «La casa di un pagano è impura agli occhi nostri. «Oh! poverini! Si contaminano a entrare! Va bene. State dove siete, allora. Non un passo avanti o sarete infilzati sulle lance».
Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci soldati con le lance, che fanno quadrato attorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù si ferma in un grande atrio. I due centurioni rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un mantello rosso. Dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda e chiede ai due centurioni: «Questo?». «Questo». «Vengano i suoi accusatori», e va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente. «Non possono venire. Si contaminano». «Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo. «Parlate e siate brevi». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo. «Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui». «Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra uno innocuo…» «Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti. «Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza». I soldati ubbidiscono veloci. «Quale accusa portate verso costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me, per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi». «Noi non possiamo condannare a morte nessuno. Abbiamo bisogno del Diritto di Roma…». “Avete detto la veritá: avete bisogno di Roma! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho capito». E Pilato ride. «Dite un po’: che delitto ha commesso costui?”. «Costui crea disordine nella nostra nazione e impedisce di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei». Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta, tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?». «Lo pensi tu, questo o perché te l’hanno detto gli altri?». «E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato a me, perché io ti giudichi. Che hai fatto? So che tu sei sincero. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno di questo mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere umano io non ho interesse». «È vero. Lo so. Mi fu detto. Però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce». «E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso». «Lo so, peró gli serví di fronte alla vita, gli serví a vivere bene. E anche a morire bene. E ad andare nell’altra vita senza tradire la virtú”.  «Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa». La folla tumultua, presa dalla paura che lo possa liberare. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!». Pilato torna da Gesù: «Sei Galileo? Lo senti come ti accusano? Discolpati». Ma Gesù tace. Pilato pensa… E decide. «Una pattuglia di soldati e portate costui da Erode. Lo giudichi lui. È suo suddito. Riconosco il diritto di Erode e saró d’accordo sulle sue decisioni. Questo glielo si dica!. Andate».
E Gesù, circondato dai soldati, riattraversa la città e incontra di nuovo Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una prima volta presso un mercato. Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Gesú vede Cusa… che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi la testa col mantello.
Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori bugiardi. Solo il centurione con quattro soldati lo scortano davanti a Tetrarca Erode. Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e prende in giro. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano Gesú come non lo hanno turbato le prese in giro e le buffonate precedenti. «Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e sono contento che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io… le cure di Stato… Ma che desidero dirti: grande… di chiederti perdono… Ho fatto uccidere Giovanni Battista…, ma il suo sguardo e la sua voce mi accusano ancora…, sono sempre davanti a me. Tu sei il santo che toglie i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo». Gesù tace. «Ho sentito che ti accusano di esserti messo contro Roma”. Gesù tace. «Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e anche della cittá di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?». Gesù tace. «Sei pazzo? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora. Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un cane dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere stupido, un aborto d’uomo, che tutti i servi prendono in giro.  Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa e piange. Comanda che guarisca. Fa’ un miracolo». Gesù lo guarda severo. E tace. «Ti ho offeso? Allora guarisci questo stalliere. È un uomo, di poca intelligenza. Dàgli un po’ di intelligenza in piú, Tu, che sei l’Intelligenza del Padre… Non dici così?». E ride, offensivo. Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio. «Quest’uomo è è diventato muto. Portate qui, vino e donne. E slegatelo». Lo slegano. E mentre numerosi servi portano anfore e coppe, entrano danzatrici… coperte di niente. Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!…», insinua Erode.
Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi. «Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei pazzo. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca Erode ha giudicato pazzo il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole Ponzio Pilato che Erode lo rispetta molto e venera Roma. Andate». E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana. E tornano da Pilato. Il centurione saluta Ponzio Pilato, il quale dice: «Di nuovo qui?! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Che noia!». Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo. «Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Anche Erode non ha trovato nessuna colpa. E lo ha rimandato a noi. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi, vi darò in cambio Barabba. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così». «No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazareno». «Ma non avete sentito? Ho detto faró frustare il Nazareno! Non vi basta? Lo farò flagellare! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò». «Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Tu sei protettore dei delinquenti! Pagano! Satana sei anche tu!». La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati viene quasi travolta nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione. «Quanto?».
«Quanto ti pare… Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani unite sulla testa, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi… E deve essere una tortura anche questa posizione.
Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico e terminanti in un martelletto di piombo. Insieme si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli. I quattro soldati a cui è stato consegnato, sono indifferenti, davanti alla flagellazione e si mettono a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. I flagellatori infieriscono specie sul torace e sull’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sulla testa, perché non vi fosse un pezzo di pelle senza dolore. E non un lamento… Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento. «Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla un soldato. I due boia si fermano e si asciugano il sudore. «Siamo sfiniti», dicono. “Dateci la paga!”. «La forca vi darei! Ma prendete…», e un soldato getta una grossa moneta ad ognuno dei due boia. «Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Sleghiamolo un poco». Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede per vedere se si lamenta. Ma Egli tace. “Che sia morto? Possibile? È giovane e forte, mi hanno detto”. «Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. A terra dove Egli era, ci sono dei grumi di sangue… Poi va ad una fontanella che c’é sotto al portico, riempie un secchio d’acqua e lo rovescia sulla testa e sul corpo di Gesù. «Ai fiori fa bene l’acqua». Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi. Ma inutilmente! Egli punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi. «Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con la sua lancia gli percuote il viso e colpisce Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare. Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato… Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi. «Véstiti. Non è decenza stare così. Sporco!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui. Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si abbassa – e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così pieno di ferite come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono – un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente. Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora sporca di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunica corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così dalla polvere e dagli sputi. E cosí, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e ferite. E si aggiusta i capelli caduti scomposti e la barba per un bisogno di essere un po’ ordinato nella persona. E poi si rannicchia al sole. Perché trema! La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire. Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata. «E ora? Che ne facciamo?». «Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì…», dice un soldato. E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la spada tolgono le foglie e i fiorellini, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo di Gesú. Ma la barbara corona ricade sul collo. «Non ci sta. Deve essere più stretta. Levala». La levano e gli graffiano la faccia, rischiando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la spingano conficcando le spine nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti c’è un triplice cordone di spine. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, c’è un vero nodo di spine che entrano nella nuca. «Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla c’è una canna e nella fogna c’è un mantello corto e rosso. Prendili tutti e due, Cornelio». E, avutele, mettono lo sporco straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gli bastonano la testa, inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si ridono. Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» (un abbeveratoio per i cavalli, capovolto), si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo… ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore atroce. I soldati finiscono di prenderlo in giro, solo dopo che sentono una voce aspra di un superiore che ordina di portare il condannato davanti a Pilato. Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velo. Ha ancora la corona, il mantello corto e la canna. «Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo». Gesù, già fracassato, si raddrizza dignitoso! «Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare». «No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!». «Conducetelo fuori», dice Pilato. E mentre Gesù esce e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?». Ma quelli urlano, mostrano i pugni, chiedono la morte…
Gesù sta dritto. Ma Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni. Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi pieni di odio, qualche volto di qualche amico. Meno di venti amici in migliaia di nemici… E abbassa la testa per la delusione. Una lacrima cade… un’altra… e poi un’altra ancora… La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio. «Dunque? Lasciatelo andare. Giustizia è giá fatta». «No. A morte. Crocifiggi».
«Vi dó Barabba». «No. Vogliamo il Cristo!». «E allora prendetelo voi. E crocifiggetelo voi. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Ha detto di essere il Figlio di Dio. La nostra legge prevede la morte al colpevole di tale bestemmia». Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e guarda Gesù. «Avvicinati», dice. Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi». Gesù tace. «Da dove vieni? Chi è Dio?». «È il Tutto». «E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei pazzo”. Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fare silenzio. Intanto la schiava di Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato, chiede di entrare. “Ho uno scritto per te». Dice al Procuratore. «Domine! Anche le donne ora! Vieni». Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta scritta sulla cera. Claudia prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge. «Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un sacerdote indovino? Mi fai paura». Gesù tace. «Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?». «Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te». «Chi è? Il tuo Dio? Ho paura…». Gesù tace. Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette dei giudei. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole». «Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazareno. Faremo sapere a Cesare questo». Pilato viene preso dalla paura dell’uomo. «Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sporchino le mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia, mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!». Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo. «No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che lui ha detto che è il re dei Giudei», così urlano in molti. «Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano e comanda: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio…

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